Generi

domenica 4 maggio 2014

I muretti di Ponte Cervo

SCRITTO DA: MASSIMO FERRARIS - RITA MAURIZI - ANTONELLA MAGGIO

Ho preso l'abitudine di venire sul ponte Cervo tutti i giorni da un mese a questa parte. Lo faccio per una sola ragione: vedere lei. E' cominciato per gioco, un pomeriggio in cui il caldo torrido di questa città non mi faceva respirare. Il ponte si trova in centro, divide le due sponde e il fiume che lo attraversa d'estate è asciutto come il paesaggio del deserto, ma su di esso spira sempre un venticello che ti fa sentire in pace con il mondo. I suoi cinquanta metri di lunghezza raccolgono una marea di ragazzi che qui si incontrano per chiacchierare e prendere il fresco, mattina e sera. I lampioni in ferro battuto danno all'insieme una nota che sa di antico. Che volete, sono sempre stato un tipo romantico, amante delle belle cose e delle ragazze more. 
Mi arrampico su uno dei muretti che formano una sorta di merlatura, quasi si trattasse di un castello più che di un ponte.

Stendahl-izzata

SCRITTO DA: ANONIMO - MASSIMO FERRARIS - VERONICA LIP - JOHN G. - RAFFAELE MERLONI

Mi fermo. Sento salire i brividi, le vertigini, mi gira la testa. Sono malata della sindrome di Stendhal. Sindrome. Non malattia, sindrome. Un'ossessione.Osservo il quadro della vita. Ne sono estasiata. Mi passano davanti immagini di vivi e di morti, vivi, morti, vivi, morti. Basta. Vedo, osservo. Un sorriso. Una donna in fondo alla via. Un gentiluomo in cravatta. Una sigaretta a terra, spenta. Una lacrima su una guancia destra. Un bambino sull'altalena. Capelli rossi, lunghi e mossi. Sindrome. Sono stedhal-izzata. Dentro al vortice della vita. Impazzirò. Troppe emozioni e troppe sensazioni mi danno alla testa. Sono troppo viva. Respiro. Mia cara vita sei proprio un bello scherzo. Nasciamo incantati, cresciamo distaccati. Alcuni invece rimangono fermi, dentro ad ogni frammento di sentimento. Li chiamano folli. Un dipinto. Colori. La vita.Sono estasiata. Sthendal-izzata.

Il racconto della sfiga

SCRITTO DA: SILVIA MORGAGNI - MASSIMO FERRARIS - RITA MAURIZI - LAURA SARTARELLI - ILARI ALLEVA

Partendo dal presupposto che il buongiorno si vede dal mattino quel mattino mia madre piombò in camera sbracciando come un gibbone in preda a una crisi di nervi urlando " svegliati che fai tardi " . Ora a differenza delle persone affidabili uno dei vizi peggiori di mia madre circa due anni fa era quello di usare ciò che lei definiva " sveglia naturale " : tale abitudine consisteva nel prelevare un povero porcellino d'india grassoccio dal pelo rossiccio e mettermelo letteralmente in testa aspettando che quel suo zampettare mi desse su i nervi e mi facesse finalmente alzare. Quella mattina però il caso volle che la navicella madre , o suddetto genio aprisse anche la finestra nella speranza che il tenero gelo polare mi incitasse ad alzare il culo dal letto .
Come posso avere una madre così me lo sono sempre domandato. Quella non è una persona normale, ma una vera e propria arpia caduta dagli inferi sulla terra. O sarebbe meglio dire salita. Le piace incasinarmi la vita, fare in modo che mi trovi sempre a disagio.

Coma di vita

SCRITTO DA: ANONIMO  -  ANDREA DE CICCO NARDONE - MARTINA BARDUCCI - ANONIMO - BARBARA VILLA MASTROPIERRO - RITA MAURIZI

Ricordo la tua bocca serrata, i denti digrignati in un sorriso orribile. Ricordo le lacrime versate sul cuscino. Le preghiere a un Dio inesistente, che non sente. Com'ero fragile davanti alla tua morte e come respiravi piano per non perdere un soffio , un soffio soltanto di vita! Piangevo e non sapevo fare altro : tu non parlavi più. Le sentivi le mie gocce salate cadere giù? Ascoltavi che piano piano morivo sempre più? Te ne sei andata senza un sussurro, senza una parola. In un coma di vita che non parla, in un coma di vita che si allontana passo dopo passo. Ricordo. Ti vedo. Sorridi. Vorrei chiederti se Dio esiste, se hai lottato fino in fondo,ma non importa. Sorrido. Ogni nostro sorriso segreto e' soltanto ciò che conta ora , adesso, in questo coma di vita.
Dove sei scomparso? dove ti sei nascosto? Sei qui, ma qui sono sola.

venerdì 28 marzo 2014

Fuori posto

SCRITTO DA: LUCA PREVIATO - RITA MAURIZI - MASSIMO FERRARIS

Appena il cancello elettrico che immetteva ai garage stava per richiudersi, si erano calati i passamontagna (potevano esserci telecamere in quei condomini di lusso) ed erano entrati a piedi dietro la vettura.
Lei, il tempo di scendere dalla macchina, e non aveva nemmeno fatto in tempo a capire.
Uno l’aveva presa per la gola da dietro, mettendole una mano sulla bocca, l’altro, di fronte, si era gettato nell’abitacolo a cercare la borsa.
Ora, mentre la teneva stretta e la sentiva immobile, gracile, indifesa, o forse soprattutto per questo, tutto sembrava un po’ diverso da come se lo era immaginato.
Ad un certo punto, mentre il più deciso frugava dentro la borsa, chi la teneva si sentì colare qualcosa sui pantaloni, sulle gambe. Lei gli stava pisciando addosso, ma lui non disse nulla, il contatto con il suo corpo, da dietro lo eccitava e quella reazione di paura lo eccitò ancora di più.

Tu mi conosci?

SCRITTO DA: ANONIMO - MASSIMO FERRARIS - RITA MAURIZI - CLAUDIA NAPOLIATNO - SILVANA AVOLA - DANIELA ABBONDI

Sbuffo. Si avete capito bene, sbuffo. La testa mi si riempie di nuvole bianche. Che noia. Noia, noia, noia! Questa parola e' peggio di quanto si possa credere. Non so che dire davvero. Capisco il passante, la donna dai tacchi alti sempre di fretta, il barista sotto casa, ma tu, tu proprio no. Mi hai delusa. Possibile che anche le persone che ci vogliono bene riescano a deluderci? Adesso non so davvero quanto sai di me. Non so sul serio. Non ti capisco. Tu mi conosci? Punti il dito contro e basta. Mi sento estranea di un mondo perfetto, il nostro. Ma forse non è poi così perfetto. Forse non è poi così diverso dal mondo la' fuori. In questo universo schiacciato sul fondo celeste giudichiamo, giudichiamo, giudichiamo. Fate silenzio per cortesia. Anche tu. Tu non mi conosci. Guardo le stelle, domani mi sarò già dimenticata le tue fredde parole, perché ti amo troppo. Ma maledizione tutti li' a giudicare i sentimenti e nessuno a viverli. Adesso vivo nella mia malinconia. Lasciatemi stare almeno per stasera. Guardo la mia stella. E io la conosco perché brilla ed è mia. Mia. Tu mi conosci?

giovedì 27 marzo 2014

Vola con me

SCRITTO DA: MARINA MIA - FABIO SCARPA - LIVIO BARBATO - ALESSANDRO CIVIERO - LIDIA POPOLANO

«Il destino siamo noi, con le nostre incertezze, con le nostre paure, ma solo nel riconoscerci possiamo scoprire chi siamo, perchè attraverso gli occhi degli altri possiamo ritrovare noi stessi. Scoprirò mai chi sei?».
Le sue parole profondamente vere la scuotevano nelle viscere, avrebbe voluto dirgli "Incontriamoci, vediamoci …" ma lui aveva l'arte di saper arrivare fino in fondo al suo essere e senza darle il tempo di rispondere affonda il colpo:
«Stai con me se non sai dove andare, lascia pure il mondo al suo grigiore».
Elisa rimase in silenzio, mille pensieri senza parole e poi: «Non chiedere di più. La tua vita è già piena di tutto ciò che sei. Non hai bisogno di ritrovarti nei miei occhi o di sapere chi sono io, lasciamo che il destino porti a termine la sua corsa contro il tempo. Il nostro tempo è passato, riconoscerci oggi è stato solo un caso, un maledettissimo caso della vita!».

Scambio di identità

SCRITTO DA: MASSIMO FERRARIS - DIMITRI MANFRE' - RITA MAURIZI

Ricevo il messaggio, lo guardo e capisco che è ora di partire. Inforco lo scooter e comincio lo slalom per le strade cittadine, dribblando auto e facendo basette ai pedoni sulle strisce. Monica mi aspetta per la consueta ora d'aria. E' periodo d'esami universitari e quindi passa la maggior parte della giornata a studiare. La madre è tassativa: prima lo studio poi il divertimento, nel quale è racchiuso anche il sottoscritto. Meno male che lavoro per conto mio e non ho problemi ad assentarmi, tanto c'è Piero, mio fratello, che è sempre presente in negozio dal mattino alla sera. Raggiungo Piazza Castello e mi vedo costretto a fermarmi. Due vigili hanno bloccato il traffico, fcolpa di un incidente. Guardo l'orologio e sono quasi tentato di passare sul marciapiede, ma poi penso che non sia una buona idea. Ambulanza, auto medicale e Carabinieri, deve essere successo un macello. Provo a chiederlo alla vigilessa, che tra l'altro non è affatto male. -Un omicidio- mi risponde, senza darmi altre spiegazioni.

Partire per ritornare

SCRITTO DA: CLAUDIA LUPO - RITA MAURIZI - MASSIMO FERRARIS

Julia sapeva esattamente cosa l'avrebbe aspettata, una volta deciso che era tempo di tornare. Adesso, però, era titubante e gli occhi fissi sul portone di casa erano eloquenti, spalancati nonostante il jet-lag. Erano già diversi secondi che se ne stava lì, immobile, con la mano destra lungo il fianco ed ancora stretta nel piccolo pugno che aveva già bussato un paio di volte. Certo, era stata volutamente debole nel battere sul legno, abbastanza da non farsi sentire dall'interno. In questo modo avrebbe potuto dire che -ehi!- lei era passata, ma nessuno le aveva aperto. Mosse per andarsene e, un istante dopo, trasalì. «?JULIA!»? Il dare le spalle a quella voce non bastò a non riconoscerla. La sua mente si era rilassata all'idea di non aver trovato nessuno in casa ed ora doveva rielaborare il tutto nei pochi istanti che le sarebbero voluti a girarsi verso sua madre. Inspirò a fondo e, nel mentre, forzò il volto in un sorriso gioviale. Poggiò la valigia ed allargò le braccia, avanzando verso la donna con le migliori intenzioni.

Tutto in un ballo

SCRITTO DA: AZZURRA LUCIANI - MASSIMO FERRARIS - ILARIA ALLEVA

-Sarah sei pronta?
-Si ho quasi fatto, mi metto le scarpe e scendo.
Erano passate da poco le 22:00, Sarah e Martina si stavano facendo accompagnare alla festa. Era il loro ultimo anno di liceo, l'avrebbero chiuso con un ballo, il primo ballo organizzato dagli studenti dell'ultimo anno. Nessuna delle due aveva un accompagnatore, ma l'importante era divertirsi con i loro amici.
Arrivarono nella sala affittata, gli studenti erano tutti fuori, salutarono quelli che conoscevano e corsero dentro ad aiutare i compagni di classe a gestire il bar improvvisato da loro.
-Ei, Sarah! - si sentì chiamare, lei stava prendendo le birre per metterle in frigo.
-Un attimo e arrivo, vuoi qualcosa da bere? - non si era ancora girata a vedere chi era, voleva rispettare il suo turno al bar, per poi andare a ballare.

La "scappatella"

SCRITTO DA: PAOLA ROELA - MARINA MIA - MASSIMO FERRARIS - RITA MAURIZI - ANONIMO

E che credevi? Che t'avrei lasciato? Ti sarebbe piaciuto! Eh sì! Sicuro!
Caro mio no, in quest'atto ingrato, te la devi cavar tutto da solo.
Pensa, quando me l'hanno riferito, ho detto, dentro me: "che fantasia!"
e invece, guarda un po', sei impallidito e, a quanto pare, non è una bugia.
Che non mi tocchi più è una vita intera, ma, pensavo così, non sarà niente,
certo, è solo una nube passeggera, e invece è un temporale persistente.
Allora, che si fa? Vuoi andar da lei? Sia chiaro, bello mio, non ti trattengo,
sarò un pò ingenua, sì, ma non son fessa, e bada che alla dignità mia ci tengo!
Scegli dunque! Me o lei, non hai nessuna altra alternativa,
non ho rancore, solo tanta pena, ma svelto, prima che passi all'invettiva!

Buon compleanno

SCRITTO DA: ROBERTO D'ARGENTO - MARINA MIA - MASSIMO FERRARIS - MARISA CAPPELLETTI - PAOLA ROELA - FRANCESCA P.

Gli anni sono, un calendario che non serve. Il compleanno è lì a ricordarti che sei, più vecchio di un anno e... chi se ne frega. Oggi il telefono impazzisce, facebook pure. Ci sono quelli inaspettati, quelli dovuti ai quali, che fatica rispondere. Quei messaggini a cui vorresti dire: " ma vaff..."
Poi c'è lui, con quegli occhi strepitosi. Lui che, ha preparato una sorpresa. Certo, lo ha aiutato papà ed è fatta con le sue mani. Quelle mani che prima di ogni cosa hanno stretto un tuo dito ed hanno creato un contatto supremo che ha cambiato la tua vita. Lui che non sa bene cosa sta facendo ma sa bene, che ciò, ti regala un sorriso ed è quello, che vuol vedere nel viso di sua madre. Lui che a volte ha visto tristezza e, non sa perché, ma non gli piace e allora, fa il matto, cattura l'attenzione a costo di sbagliare ma, ci è riuscito. Ti ha distolto da quei pensieri, brutti, che ti allontanano da lui. Lui ha bisogno di Te. Del resto non gli importa. Essere madre vuol dire: essere madre e nient'altro. Essere madre vuol dire: compleanni che vanno, torte obbligate e i piatti della festa che tanto, laverai sempre tu.

Seduta spiritica - quinta parte

SCRITTO DA: PAOLO ALBERTIN - MASSIMO FERRARIS - NADIA FINOTTO

La notte aveva raggiunto il suo punto più oscuro, ben lontano dall'inizio dell'alba. Jacow volava seguendo il suo personale sestante: il richiamo del suo Regno, quella vibrazione occulta che increspava appena il volto butterato della Luna Nascosta, fonte di ogni potere dei folletti Oscuri.
Gnurp al suo fianco non dava segni di risveglio: avrebbero pensato le torture più raffinate a mantenerlo in uno stato di costante orrenda semivita, estraendogli di spasmo in spasmo ogni suo segreto. Al solo pensiero Jacow si illuminò di una gioia malsana. Non fece tempo a percorrere un miglio che percepì attorno a sé come un frullo d'ali. Tutt'attorno il monotono mare di nubi sembrava lo stesso; poi, all'improvviso, Jacow fu circondato da una moltitudine di piccole luci che gli vorticavano attorno. “I fuochi fatui!” pensò Jacow accelerando. L'unica magia che le Regioni di Sotto erano ancora in grado di evocare in modo così intenso; dovevano essersi riuniti in meditazione decine di migliaia di vecchi abitanti per generare uno sciame così numeroso.

mercoledì 26 marzo 2014

Mi diresti, per favore, che ore sono?

SCRITTO DA: ANONIMO - MASSIMO FERRARIS - RITA MAURIZI - DANIELA ABBONDI

Ho fretta. Sono studentessa universitaria di corsi inesistenti. Entro nelle aule vuote alla ricerca di qualcosa, ma non so cosa. Le parole astratte paiono proprio per ciò che sono, parole astratte. Bla, Bla, Bla questa bolla di società che sa solo dire :Bla, Bla, bla. Esco. Ho bisogno di fiato, di respirare. Bla, Bla, Bla. Anche fuori fanno : Bla, Bla Bla. Un mendicante mi si avvicina. 
"Scusa non ho tempo, ho fretta. Tanti saluti e buona giornata."
Ma quello non mi lascia, mi tiene per mano. Mi fissa con quei suoi occhi odiosi colmi di pietà.
" Mi diresti per favore che ore sono?" Mi chiede.
" che ore sono? Sul serio mi stai chiedendo che ore sono?"
Rimango ferma. Non so che dire. La gente passa, va. Corre verso qualcosa. Anche se non so cosa. E io verso che cosa corro? Ho tanti sogni e neanche uno realizzato. Perfetto sono un disastro. Sul serio. E non so nemmeno che ore sono. Come faccio a saperlo dal momento che i minuti e i secondi si assomigliano tutti? Mi volto. Il mendicante non c'è più. 
Mi diresti per favore, che ore sono? Mi diresti per favore ,che ore sono? Si ,certo lo so. Sarebbe ora di ridere. Ridere della vita così insensata, anche se solo per non fare Bla, Bla, Bla, per sognare.
Mi accorgo che il pullman sta arrivando e se non mi do una mossa rischio di perderlo. Corro, urto un signore che mi grida dietro qualcosa di incomprensibile. Salgo e scelgo un posto sul fondo. Vengo letteralmente bombardata da mille discorsi che si riversano su me rendendomi zuppa di parole. Bla bla bla, non sento altro, la mia mente si rifiuta di estrapolare qualche frase, per me è tutto brodo primordiale. Scendo alla mia fermata e guardo il cielo, forse l'unica cosa immutevole in questo mondo sempre di corsa. Cellulari, lettori mp3, radio, mi vengono contro, cerco di schivarli e quasi ci riesco, fino a quando non raggiungo il portone di casa mia e mi blocco. Non è possibile, di nuovo lui! Il mendicante si fa avanti, se mi riconosce non lo so, ma la sua domanda è sempre la stessa: -Mi diresti, per favore, che ore sono?- Ma fra tutta l'umanità che gravita attorno, proprio a me deve fare questa domanda, a me che non posseggo l'orologio, che tengo il cellulare spento in borsa. Questa mania del tempo è proprio fastidiosa, la sua è una malattia. Cosa avrà mai da fare di così importante da dover chiedere continuamente l'ora. Ma poi realizzo che quell'uomo, vestito di stracci e dalla pelle rugosa non potrebbe essere li. Il tragitto in corriera è durato più di dieci minuti e sono arcisicura che in corriera non è salito. Sto forse impazzendo o forse l'individuo non è lui? Che si tratti di una banda di mendicanti che invece di chiedere soldi raccoglie tempo? Mi piace l'idea e sto per chiederglielo quando sento chiamare il mio nome. Mi volto e vedo la mamma in arrivo con le solite borse colme di viveri. Siamo solo io, lei e papà e compra come se dovesse sfamare tutto il condominio. Le vado incontro per aiutarla, ma quando mi giro l'uomo è svanito, sparito per la seconda volta. E qui allora comincio a preoccuparmi per la mia sanità mentale. Bla bla bla, mi dice la mamma...
Prendiamo l'ascensore le scorte della mamma tolgono il respiro 
"Io prendo le scale " Sento mio padre intromettersi con i suoi bla bla bla si fanno concorrenza io ho la testa che mi già scoppia . Cerco di percorrere i gradini lentamente sperando che esauriscano le sillabe , sono arrivata al secondo piano ancora uno . Seduto sul pianerottolo di nuovo lui con una mano allungata e l'altra che fa battere sul polso 
"Che ore sono? Che ore sono? "
" Basta " Dico esasperata ma lui insiste , insiste . La sua voce mi martella e raggiunge le mie orecchie mentre salgo 
" Che ore sono?"
" Le quattro " 
Rispondo senza avere la più minima cognizione del tempo
Non lo sento più , mi volto , è sparito. Tiro un sospiro di sollievo . Sono all'ultima rampa e vengo travolta dal ragazzo che sta sopra al mio appartamento 
"Scusa credo di essere in ritardo " 
Corre giù come un ossesso, ma dove diavolo va, uno che non lavora , che non studia e che non ha nemmeno una ragazza!
Sbaglio o il tempo oggi la fa da padrone? Non intendo il tempo meteorologico, ma quello scandito dagli orologi.
-Chi ha tempo non aspetti tempo!- esclama mia madre preparandosi a preparare la cena. E' come la famosa goccia che fa traboccare il vaso. Corro in camera mia e mi sdraio sul letto. Che diavolo sta succedendo fuori dal mio cervello? Lo so, sono sempre stata un po' strana, con la testa tra le nuvole, ma ora mi sembra di esagerare, di non riuscire più ad interagire con gli altri. Mi alzo di scatto e prendo il cellulare. Lo accendo e aspetto di vedere il logo di benvenuto. Due messaggi, e tutti e due di Gaia. Non ha niente da dirmi, mi chiede se voglio uscire a fare due passi dopo l'università. Guardo l'ora sul display e penso che un giro ci sta. "Ok, ci vediamo sotto casa tua" rispondo, poi afferro giacca, bacio mamma e le dico che per cena sarò a casa.
Fuori c'è la solita cacofonia di bla bla bla ed io mi incammino senza voltarmi ad ascoltare nessuno e raggiungo casa di Gaia. Mi blocco, perchè noto che la mia amica sta parlando con il mendicante. Mio Dio, ma allora è una persecuzione! Mi sento la protagonista di un film horror. Gaia mi vede e mi raggiunge, sul suo viso regna sovrano il dubbio. -Che cè?- chiedo. -Che voleva quello?-
-Una cosa strana...- risponde, poi si ferma. Io non sto più nella pelle e cerco di suggerire il seguito: -Ti ha chiesto l'ora?- 
-No, mi ha detto: quando incontri la tua amica falle una semplice domanda, lei prima o poi capirà il suo significato. Fagliela, prima che per lei sia troppo tardi.-
Ho paura a chiederlo, ma lo faccio: -E... sarebbe?-
-Mi diresti, per favore, che ore sono?
Mi si gela il sangue nelle vene. Cosa avrà voluto dire? E poi, perché proprio io? Cos'ha a che vedere quest'uomo con me? Comincio a sentire sul collo il fiato del destino. Forse farei meglio a tornarmene a casa. Vorrei solo mettermi nel letto e dormire fino a domani. Ma, alla fine, a cosa servirebbe? Il tempo. Il tempo continuerebbe a scorrere, inesorabile. E se io non ne avessi più? Se questo fosse un avvertimento? Una qualche premonizione? Mi risveglio dai miei pensieri. La mia amica osserva il mio pallore, continua a chiedermi se mi sento bene, ma io, fino a quel momento, non l'avevo proprio sentita. "Sto bene", le dico. Bugiarda. Sto mentendo solo a me stessa. Ho paura. Paura di chiedere perché è così importante che io sappia che ore sono. Mi chiedo se ho dimenticato qualcosa di importante. Mi chiedo se, invece, non abbia appuntamento con il mio destino. Sono giovane, voglio altro tempo. Voglio svegliarmi domani, preparare i miei ultimi esami. Voglio laurearmi. Voglio dire a mia madre che le voglio bene. Voglio dire a mio padre che non ce l'ho con lui per avermi dimenticata a scuola quando avevo solo otto anni. Voglio vedere Venezia. Voglio avere un figlio. Senza rendermene nemmeno conto, realizzo che mi sono fermata a riflettere su ciò che di importante ho nella vita. Mi rendo conto che devo sapere. Ma dove sarà ora quell'uomo che prima sembrava infastidirmi tanto?
Sto vivendo una nuova vita. Mi sono svegliata la mattina dopo e ho aperto la finestra. Il sole ha inondato la stanza con i suoi raggi caldi. Il mondo sotto i miei occhi continuava a girare allo stesso modo, ma in me è scattato un interruttore, qualcosa che mi ha fermato ad osservarlo. I bambini con la cartella che vanno a scuola, sin qui tutto come prima, ma fino a ieri non mi sono mai soffermata ad osservare i loro visi felici, le grida e i giochi, per me facevano parte di un qualcosa di già visto. Ho rotto il velo della superficialità e mi sono resa conto che il tempo è il vero padrone della nostra vita; noi viviamo in funzione di esso, ma con volontà possiamo fare in modo che diventi nostro amico e ci regali la gioia di vivere.
Sono andata in cucina, ho osservato il grande orologio a muro e mi sono persa nella lancetta dei secondi. "Sono le otto" ho pensato e con quella frase ho dato la risposta al mendicante. Si, perchè da quel momento ho capito che il mondo non è solo una serie di bla bla bla che escono dalle bocche delle persone, ma un'energia che ci aiuta ad essere tutti abitanti dello stesso mondo. Ho guardato mia mamma e le ho sorriso. -Oggi voglio venire a fare spese con te- le ho detto. Ho voglia di conoscere il mondo come è, lasciare alle spalle il vuoto che accompagna le mie giornate e ritrovare il tempo, quello buono, quello che ci permette di essere persone.
Non ho più rivisto il mendicante, e forse ripensandoci ora neppure è mai esistito. Anche Gaia sembra non ricordare nulla, ed io non ho voluto indagare oltre. Può essere stato solo un sogno, ma sono felice. D'un tratto sento chiedere: -Scusa, che ore sono?-, mi giro e vedo un bel ragazzo che si rivolge a me. Ha gli stessi occhi del mendicante, ma non mi spavento. -E' l'ora per un caffè- gli dico semplicemente, e rimaniamo a guardarci sorridendo.

Il coraggio di Wolf

SCRITTO DA: MANYLIN MONFREDO - ROBERTO LEONE - MASSIMO FERRARIS - DIMITRI MANFRE' - CLEO PATRA - MIK MIK Z.

C'era una volta, tanto tempo fa, un piccolo lupo che aveva paura della foresta.
Il piccolo lupo se ne stava nascosto tutto il giorno nella tana, protetto dal calore del pelo della sua mamma, e nascondeva il muso per non guardare i suoi fratelli e sorelle che uscivano dalla grotta come se niente fosse.
Quando la mamma usciva per andare a caccia, il piccolo lupo si rannicchiava contro una pietra sul fondo della tana e tremava, tremava tanto che si addormentava, e si svegliava quando la mamma passava la lingua sul suo pelo. 
Un giorno la mamma decise di portare i cuccioli ad esplorare la foresta, perché stavano diventando grandi e da lì a poco avrebbero dovuto iniziare a cacciare da soli.
Ma la mamma lupa, preoccupata che il piccolo Wolf venisse assalito all'aperto da un predatore mentre tremava e guaiva, decise di lasciarlo nella tana. Prima di andarsene gli lasciò un pezzo di stoffa che aveva trovato in mezzo alla foresta e gli diede un buffetto sulla testa con il naso "Torno presto" e se ne andò con i suoi fratelli e sorelle.
Il piccolo lupo si addormentò tremando, come sempre. 
Uno sparo lo svegliò e lui drizzò l'orecchio. Il solito sbattere s'ali, ma nient'altro. 
Silenzio. 
Non c'era nessuno.
La luce arancione del tramonto si stava scurendo a vista d'occhio e la sua famiglia ancora non era tornata. Aspettò una notte e una mattina, il suo stomaco brontolava, ma lui non si muoveva. Aspettò un altro pomeriggio, quando la sera la vicina volpe venne a trovarlo.
Il piccolo Wolf aveva sperato fosse la sua mamma, ma il pelo aranciato gli fece capire subito che non era così. Si rannicchiò dietro la sua pietra e tremò mentre la volpe avanzava, il muso distorto dal dolore. «Piccolino, non avere paura di me» disse la volpe con tono affabile. «Non voglio farti nulla».
Ma Wolf ne aveva eccome di paura. Paura della volpe e di quello che poteva dirgli, e non poteva fare altro che tremare contro la sua grande pietra, ma ormai non abbastanza da coprirlo tutto.
La volpe, capendo che il piccolo Wolf era troppo terrorizzato, fece qualche passo indietro. «Hai mangiato?» gli chiese con voce dolce e preoccupata. Un gorgoglio che risuonò per la caverna fu la risposta. La signora volpe annuì: «Non ti muovere, aspettami».
Wolf sarebbe rimasto lì anche senza l'incoraggiamento della volpe, ma questa volta non si addormentò: un pensiero agghiacciante e lo stomaco vuoto lo tenevano più sveglio che mai.
Dopo due ore la volpe fu di ritorno. In bocca teneva mezzo coniglio. Lo lasciò cadere a terra e disse: «Scusa se non è intero, ma avevo fame anche io. Comunque sei un cucciolo, non dovresti…» si bloccò, vedendo che il cucciolo aveva fatto un altro passo indietro nonostante adocchiasse con occhi famelici l'animale morto. Allora la volpe uscì e, non appena fu sparita alla vista, il piccolo Wolf si gettò sul coniglio, lo portò dietro la sua pietra e lo divorò in cinque bocconi. Si addormentò, ma non fu un sonno tranquillo.
La volpe, intanto, aveva iniziato ad andare da lui almeno una volta al giorno con qualcosa da mangiare tra i denti. Una volta, però, entrò nella grotta col pelo insanguinato e zoppicante; tra i suoi denti c'era una lepre. L'aveva ancora in bocca quando stramazzò al suolo.
Il piccolo Wolf rimase nascosto dietro il sasso, fino a quando capì che la volpe non si muoveva. L'odore del sangue gli faceva ribollire lo stomaco e la vista della lepre era una tentazione troppo forte. Si avvicino, dapprima con circospezione, poi più deciso, sino a quando non si trovò vicino alla volpe. Si accorse che stava respirando e questo lo spaventò, ma sapeva anche che lei era buona e che negli ultimi giorni era venuta nella tana per aiutarlo. Diede una leccatina alla lepre, ma si rese subito conto che aveva qualcosa da fare prima di mangiare. Doveva uscire in cerca di aiuto. Il solo pensiero lo spaventò a morte e lo sguardo andò al masso, unico posto sicuro di cui si fidava. Ma non poteva lasciare la sua amica volpe in quello stato, capiva che stava male, lo percepiva dal respiro affannato. Inoltre una macchia a forma di fiore fioriva sul suo candido manto. Sporse il muso oltre l'entrata e la luce del sole lo colpì con violenza. Vide per la prima volta il mondo e si accorse di quanto era bello. Alberi, erba e fiori erano cose nuove per Wolf, ma realizzò subito che non gli facevano alcuna paura. Inoltre l'erba era soffice sotto le sue zampette ed emanava un odore delizioso. Si guardò intorno, nella speranza di scorgere la mamma e i fratelli, ma ovunque lanciasse lo sguardo non ne vide traccia. Cosa poteva fare un piccolo lupacchiotto come lui per aiutare la sua amica? Prese coraggio e si portò verso la macchia di alberi di fronte alla tana. Da li proveniva un rumore nuovo, che scoprì essere un fiume. Si avvicinò, immerse la zampetta e capì che si trattava di acqua. Ne bevve lunghi sorsi, era fresca e piacevole. Forse avrebbe fatto bene anche alla volpe, l'avrebbe aiutata a guarire. Cercò di afferrarne un po' con le zampe, ma si accorse subito che quello non era il metodo. Wolf si guardò intorno in cerca di qualcosa di utile, anche se non aveva la più pallida idea di cosa cercare.
Il cucciolo di lupo esaminò l'ambiente, ignaro dei pericoli che un mondo, per quanto incantevole, può nascondere. Intento a cercare un modo per aiutare la volpe, il suo olfatto captò qualcosa! Proveniva al di là della fitta boscaglia. Era l'odore della madre e dei fratelli. Sollevato e contento, corse verso quella direzione. Non solo si sarebbe finalmente riunito alla sua famiglia, ma avrebbe trovato un modo, insieme a loro, per aiutare l'amica volpe. Wolf si immerse tra le frasche e continuò a spingere finché non riuscì ad affacciare la piccola testolina pelosa dall'altra parte. Quello che vide con i suoi dolcissimi occhi, lo avrebbero segnato per il resto della sua vita. Due figure alte, che si ergevano su due zampe, trasportavano i suoi fratelli dentro a delle piccole gabbie. Non solo... reggevano un lungo bastone al quale era stata appesa la madre. Notò, nonostante la distanza, la chiazza cremisi che aveva sul collo. Capì subito che si trattava di "cacciatori". La madre gliene aveva parlato tempo fa. Il piccolo rimase immobile, mentre le lacrime gli scorrevano fino a bagnare il suo musetto. Emise dei lamenti e continuò a osservare gli uomini andarsene con il resto della sua famiglia in ostaggio. Si dimenticò della signora volpe e del mondo che lo circondava. Straziato dal dolore e dalla tristezza, Wolf rimase lì per interi minuti, avvolto tra le foglie del cespuglio. I suoi pensieri andarono ai fratelli. Cosa poteva fare? Era solo e la sola amica che aveva era ferita riversa all'interno della sua tana. Il piccolo tornò a lenti passi verso il fiume e notò qualcosa di insolito. Uno scoiattolo che aveva perso l'equilibrio mentre correva lungo un tronco d'albero, venne soccorso da un uccellino. In quel momento, il piccolo Wolf, capì cosa fare. Tornò nella sua tana, avvolse la volpe con il pezzo di stoffa datogli dalla madre e cominciò a trascinarla all'esterno. Una volta fuori, Wolf cominciò a ululare: "Aiuto"
Tanti occhi luminescenti uscirono dal buio delle loro tane e si avvicinarono guardinghi al piccolo lupo che pareva trattenere una vittima tra le proprie fauci. Due cuccioli di volpe annusando l'aria captarono l'odore della mamma. "Ti prego, non ucciderla senza di lei siamo persi". Wolf intenerito posò con delicatezza il fagotto a terra. " Non voglio farvi del male, la vostra mamma è stata ferita dagli esseri che si ergono su due zampe e i miei fratellini sono stati rapiti, ho bisogno di aiuto". Dall'alto di una quercia scese con le ali spiegate il grande gufo, noto per la sua saggezza e la sua conoscenza di erbe mediche. " Curerò io la povera volpe, starà bene grazie anche al tuo coraggio, ora devi correre dalla tua famiglia, i tuoi fratelli hanno bisogno di te". Il piccolo Wolf che fino a poco prima tremava come una foglia per la paura, si sentì improvvisamente forte e coraggioso. Un gruppetto di volpi, riconoscenti per il soccorso di volpe, gli si affiancò, sarebbero partiti tutti insieme per liberare i lupacchiotti. Wolf ululò alla luna sperando che le sue grida raggiungessero i fratelli, altri ululati gli risposero e in men che non si dica una decina di lupi si parò dinanzi a lui. Ormai forte e sicuro di sé, Wolf si avviò con la strana spedizione per andare a liberare la sua famiglia.
L'oscurità della notte era dalla sua parte, avrebbe reso il piccolo gruppo difficilmente individuabile.
Quanto saranno pericolosi questi esseri bipedi? Si domandava Wolf, continuando ad annusare l'aria in cerca di tracce, visto ciò che avevano fatto, concordò che fossero piuttosto temibili, come la puzza che lasciavano dietro di se, facilmente rintracciabile.
Finalmente sbucarono in una radura, dove un fuoco al centro la illuminava, Wolf riuscì a vedere i suoi fratelli chiusi in una gabbia vicino ad un carro, che, con la coda tra le zampe,? guaivano e tremavano per la paura. Poi ebbe una stretta dolorosa al cuore, vedendo come era stata ridotta sua madre; Ne era rimasto solo la pelliccia. Non poteva più far niente per lei, ma doveva liberare i suoi fratelli. Dov'erano gli esseri umani? Non li vedeva, ma sentiva il loro odore. I lupi provarono a mordere le sbarre della gabbia per liberare i prigionieri, ma non riuscirono neppure a scalfire quell'oggetto lucido e duro.?
Non c'era altro da fare che affrontare gli umani. Wolf sentì il loro russare provenire da dentro un casottino di legno. Infilò il muso nella fessura della porta e l'aprì. Col cuore che martellava, entrò e cominciò a ringhiare sonoramente col pelo ritto. Gli uomini saltarono per lo spavento e rimasero immobili, presi di sorpresa, si accorsero di non avere a portata di mano le loro armi.Wolf stava cercando di dirgli "Liberate i miei fratelli e ce ne andremo senza farvi alcun male."Ma purtroppo gli uomini non capivano.Allora a capo basso e con cautela si avvicinò a uno di loro che urlò di paura, gli afferrò un angolo del pantalone e tirò. L'uomo scese dalla branda e seguì il lupo che si fermò vicino alla gabbia dov'erano rinchiusi i fratelli. Un colpo riecheggiò...  

Un gioco da ragazze

SCRITTO DA: ALESSANDRA DE MAIO - ANTONELLA MAGGIO - MASSIMO FERRARIS - RITA MAURIZI - GIANFRANCO MACCAGLIA

La prima volta che Bianca aveva baciato Massimiliano le sue labbra sapevano di vodka alla pesca, tè al limone e Schwepps e portava un orribile fiocco rosa in testa. 
Era stata un'imboscata. 
Lo aveva preso per mano e lo aveva chiuso in uno sgabuzzino prima che scoccasse la mezzanotte. Aveva avvicinato il suo viso a quello di lui e gli aveva farfugliato qualcosa sul fatto che non poteva diventare maggiorenne senza aver mai dato il primo bacio. 
Aveva spinto le sue labbra stucchevoli contro quelle immobili di lui e si era perfino addentrata timidamente nella sua bocca, facendosi spazio con la punta della lingua. 
Poi l'aveva lasciato lì, ad assaporare il suo primo bacio. Da solo.
Da quel giorno erano passati ben dieci anni e Bianca ne aveva dati a bizzeffe di baci. Aveva baciato sconosciuti, amici di comitiva, compagni di università, persino i primi colleghi a lavoro ma non aveva più baciato Massimiliano.
Quella sera Massimiliano era rimasto chiuso per altri dieci minuti in quel fetido sgabuzzino della casa di Alice, la migliore amica di Bianca che aveva organizzato proprio a casa sua la festa a sopresa per i diciotto anni dell'amica. Era rimasto imbambolato mentre dinanzi ai suoi occhi scorrevano veloci le immagini di quello che era appena successo. Bianca. La ragazza più carina della classe, con le gote rosse e le labbra carnose. Aveva studiato e analizzato alla perfezione quelle labbra prima che quelle toccassero le sue. Il loro primo bacio, il suo primo bacio. Aveva avvertito uno strano fuoco arderlo silenziosamente dall'interno. Era stato sul punto persino di sciogliersi lì, davanti a lei ma proprio mentre Massimiliano era pronto ad allungare le mani, nel senso di abbracciare Bianca, lei era scappata via dicendogli che aveva bisogno di quel primo bacio per scaramanzia prima che sopraggiungesse la mezzanotte e i suoi diciotto anni. Bianca l'aveva usato.
Anche Massimiliano da quel giorno aveva dato molti baci ma nessuna donna era mai riuscita a riaccedergli dentro il fuoco come quella sera. Massimiliano, deluso ed affranto, decise che da quel momento in poi avrebbe solamente usato le donne proprio come Bianca aveva fatto con lui.
Aprì la portiera e la fece entrare. Le lunghe gambe avvolte nelle calze nere erano state le prime cose che aveva notato in lei. Era stata una facile preda, una come tante; gli era bastato tirare fuori di tasca la mazzetta da cento euro fermata dalla graffetta d'oro e lei si era avvicinata, come una mosca al miele. L'aveva fatta bere, come da copione, aveva giocato con le mani, gli sguardi. Un piede di lei era scivolato verso il suo inguine e quello era il segnale che cercava.
Aprì ilo vano portaoggetti e tirò fuori uno spinello. Roba forte, come al solito, come tutta la merce che gli passava il Guercio. Ma quel piccolo involtino di tabacco, carta e altre schifezze non era per lui. Faceva tutto parte della tattica assodata da alcuni anni a quella parte. Le donne lo eccitavano, ma solo se erano completamente in balia di lui, e l'unico modo era quello di stordirle, fare in modo che al risveglio non si ricordassero nemmeno dove avevano passato la serata. Aveva sempre funzionato, non era mai andato asciutto e quella mora sarebbe stata un'altra stella da appuntare al tabellone. La bellona accese lo spinello ed inalò grandi boccate, proprio come lui gli stava dicendo. Gliela porse, ma lui rifiutò, ingranando la marcia e uscendo dal parcheggio privato del Club. Si guardò nello specchio e ritrovò l'immagine di un uomo sicuro di se, dalla bellezza particolare. Delle piccole rughe si stavano formando agli angoli degli occhi, ma queste lo rendevano ancora più affascinante. La mora iniziò a dare segni di euforia, emetteva gridolini ed allungava le mani. “Bene”, pensò soddisfatto, “cotta al punto giusto”. Arrivò davanti al locale e guardò alcune coppie che sostavano sull'ingresso. Gente normale, ma una di loro attirò la sua attenzione. Stavano litigando in malo modo, poi l'uomo diede uno schiaffo alla donna e scappò. Alla luce del locale Massimiliano ebbe quasi un colpo: dopo tanti anni aveva ritrovato Bianca.
Sentì le budella contorcersi e avvilupparsi attorno allo stomaco , la mora gli si gettò sopra tanto da non permettergli di scorgere Bianca , indispettito la rimise al suo posto
"Ehi !"
"Sta buona per un secondo "
Vide Bianca pararsi dietro un biondone alto due metri che prendendo per il "corvattino" l'aggressore lo fece fuggire a gambe levate ,poi sottobraccio entrarono nel locale.
La mora era lì a portata di maschio che eccitato dalla visione di Bianca era più che mai in auge. Massimiliano accostò l'auto dietro la fila di alberi che circondavano il parcheggio, con irruenza fuori dai suoi canoni ,le prese la testa corvina , le chiuse gli occhi con la mano, planò fra le sue gambe godendo dell'attimo finale ,attimo che assunse il volto di Bianca .
Massimiliano decise che era ora di pareggiare i conti. Lasciò la sua accompagnatrice addormentata sul sedile posteriore ed entrò nel locale: anche Bianca era entrata. 

Lei non era come lui la ricordava: aveva abbandonato i fiocchi e le sue guance non erano più così rosee. Le labbra però, quelle labbra che avevano animato i suoi sogni di adolescente e che lo avevano reso l'uomo che era diventato, non erano cambiate. E ora Massimiliano le immaginava di nuovo sulle sue. Mentre sentiva il fremito dell'eccitazione accarezzargli la nuca e cominciare a scendere lungo la spina dorsale Bianca lo guardò. Non era sicuro che l'avesse riconosciuto, erano passati parecchi anni e lui ora sapeva esattamente come baciare una donna.
Si fece spazio tra la folla, spintonando le persone che si frapponevano tra di loro, mentre la musica del club gli faceva rombare i timpani. 
Bianca nel frattempo era vicino al bancone, stava urlando qualcosa all'uomo alto e biondo con cui Massimiliano l'aveva vista: lui aveva sorriso, lei ridacchiato e poi aveva guardato di nuovo nella direzione di Massimiliano; non vide il momento in cui il sorriso di lei cominciava a spegnersi ma non si perse quello che si accendeva sul volto del biondo. Fu un attimo: tra i due scattò una sorta di competizione implicita che lei, chissà come, colse, e a cui rispose mordendosi le labbra e premendo la spalla contro il petto del suo accompagnatore.
Nel frattempo Massimiliano li aveva raggiunti e lei stava ordinando un white russian. Ancora le piacevano gli intrugli dolciastri. Allora non era cambiata.
Ancora le piaceva giocare.
Un gioco che non poteva conoscere... era passato così tanto tempo. Si mise una mascherina di carnevale e si avvicinò a lei. Da pochissimi centimetri, facendola rabbrividire con l'alito caldo, le sussurrò all'orecchio: "io so cosa ti piace. Manda a nanna questo stupido bestione biondo e poi io e te ci divertiamo sul serio". Il biondo ringhiò "se non ti togli di torno ti faccio fare la fine di quell'altro stronzo". Massimiliano tirò fuori dal taschino un foulard di seta nera e lo strinse intorno agli occhi di Bianca "non voglio che tu veda cosa farò adesso" il biondo non si rese conto di cosa stesse succedendo e dopo pochi secondi era accasciato a terra... perdeva sangue dalla bocca e piagnucolava tentando di proteggersi la pancia e i genitali. Senza neanche voltarsi, Massimiliano la prese per mano e la portò fuori. Quando furono nell’auto mise in moto e partì veloce dicendole “no, non toglierlo, è una sorpresa, ti prometto che ti piacerà… Bianca” Lei sussultò e balbetto “ma io…, tu… mi conosci, chi sei?” “non parlare… è solo un gioco, un bel gioco”. Il magazzino era completamente isolato e al buio, scesero dall’auto e la portò all’interno. Lei tremava, eppure non voleva andarsene… sentì l’odore di muffa e umido. Lui le mise in mano una bottiglia e quando l’avvicinò alle labbra Bianca riconobbe l’odore di vodka alla pesca. Tracannò con foga tre lunghe sorsate, poi lui la spinse fino dentro uno stanzino… odore di detersivi, carta che fruscia sotto i piedi e… lui la sbatté finalmente contro la parete. Bianca disse con voce impastata “fammi quello che vuoi” Le prese il mento con la mano e la baciò con forza, lei spinse il pube contro la coscia di lui e si aggrappò con le unghie dietro la sua nuca. “Prendimi” gridò quasi piangendo. Massimiliano si tolse la maschera, si staccò da lei e le sciolse il foulard. Andando via le mise 50 euro e un biglietto in mano “questo è l'indirizzo... chiama un taxi”
  

Forse, mai abbastanza

SCRITTO DA: CIESSE - LETIZIA LEOTTA - MASSIMO FERRARIS - ELENA SOTERA

Non si può respirare sott'acqua, a meno che tu non sia un pesce dotato di branchie, o magari un sub. Io non sono un pesce, non sono un sub e non credo mi piaccia più di tanto il mare... eppure stavo nuotando nei miei problemi, nella malinconia. 
Nonostante fosse solamente una domenica di aprile, faceva molto caldo. Quello era un caldo che non si dimentica facilmente: ti rimane impregnato sulla pelle e nei capelli, come resina. Mi svegliai e fui per un attimo assalita dalla voglia di continuare a dormire, ma il mio buon senso mi buttò giù dal letto umido: erano già le undici e trenta. Mi lavai di corsa e misi indosso la felpa blu, i jeans e le sneakers, e scesi le scale come se avessi delle gambe chilometriche. La fretta si era impadronita di me e il mio passo si faceva sempre più veloce. Budapest, frenetica, viveva attorno a me mentre i bus, gli impiegati in bici e le signore indaffarate mi circondavano. Accanto alla mia fermata del bus una band suonava canzoni degli Oasis con un accento improponibile e una ragazza dai tratti irlandesi rideva senza contegno, per quelle frasi senza senso che i tre giovani si sforzavano di pronunciare correttamente. 
Dopo dieci minuti, finalmente, arrivai alla mia destinazione: il parco!?
Molte persone sono convinte il parco sia un ottimo posto per coltivare la solitudine, i pensieri e magari per fare un bel viaggio introspettivo, e credo fosse una cosa che pensavo anch'io. Però mi sbagliavo, perché non è poi così divertente essere al parco senza nessuno. 
I giardini sono posti magici, e non lo dico solo perché la cosa migliore della mia vita mi è successa proprio lì.?
Da due mesi, ogni volta che non c'era scuola, mi dirigevo lì, forse perché era l'unico posto in cui mi sentivo qualcuno o meglio, parte di qualcosa : ho conosciuto in mezzo al verde la mia migliore amica. Forse potrei sembrare di parte, ma lei era bellissima. Due grandi occhi grigi, un po' tristi ma molto profondi, una sottile bocca rossa rossa, tante piccole rughe e dei capelli color argento che le delineano il volto. Il suo nome era Agatha, 73 anni, una impetuosa vita alle spalle e ancora tanta voglia di vivere. Da parecchi anni non aveva una casa e tantomeno una famiglia con cui vivere, in alcuni momenti credo fossi io l'unica fonte del suo sorriso. Spesso le portavo vestiti, da mangiare e da bere, o anche da leggere, perché voleva nutrire il suo spirito con i libri e placare la sua fame con il cibo. Lei amava leggere tutto ciò che le portavo ma preferiva le storie horror, perché oramai anche la cosa più paurosa , in confronto alle sue esperienze, era comicità. 
Perse la figlia Ana di soli 13 anni. Suo marito le attribuì la colpa del terribile incidente e da uomo si trasformò in una bestia, iniziando ad usare contro di lei ogni tipo di violenza: verbale e fisica.
Aveva ancora i segni della sua sofferenza sul volto e sul corpo : cicatrici enormi, in grado di raccontare storie angoscianti. Però lei ebbe il coraggio di scappare da quell'uomo, nonostante non avesse dei soldi per sopravvivere. Qualsiasi cosa ,a suo avviso, sarebbe stato più dignitoso. 
Cercò lavoro in diversi posti, ma tutte le risposte furono negative. Così, a distanza di poco tempo, iniziò a vivere per strada, tra canti ed elemosina. 
Un giorno, mentre passeggiavo per strada per raggiungere le mie amiche, mi trovai ad ascoltare quella dolce signora cantare strane canzoni popolari, e credo in quel momento sia nata un'amicizia a prima vista.
Tra le nostre anime fu attrazione immediata, come accade tra due magneti, perché eravamo accomunate dallo stesso male : entrambe non ci sentivamo abbastanza.?
Purtroppo però, il lungo freddo dell'inverno appena passato aveva portato con se, l'anima calda e coraggiosa della mia amica. Che ora, se esiste, starà cantando in un coro importante in paradiso! Mi sento così sola. Forse é colpa mia, erano giorni che la cercavo per ospitarla quando ricevetti la chiamata: era un volontario. Aveva trovato il mio numero su uno dei libri che le avevo regalato. Ricordo ancora cosa le avevo detto: <se ti servisse aiuto, o per qualsiasi cosa chiamami!> e lei mi aveva sorriso annuendo. "Non mi aveva chiamata però, perché?". Poi improvvisamente quella telefonata. Calde lacrime mi appannarono la vista, rigandomi il viso. Le asciugai col dorso della mano. Dicono che non esiste la sfortuna, io però sono l'eccezione. La suora del collegio da piccola mi ripeteva:<Dio ha uno scopo per ognuno di noi, devi solo trovare il tuo!>. Già il collegio... Ero stata catapultata lì dalla vecchia zia di mia madre dopo l'incidente. <Unica sopravvissuta. È un miracolo! > ripeteva l'agente che mi aveva trovata fuori dalla macchina. Miracolo, che strana parola, indica salvezza e solitudine allo stesso tempo...
Mi siedo sulla panchina di Agatha; è qui dove ha passato maggior parte della sua vita di nomade, qui dove l'ho conosciuta e qui dove è partita per l'ultimo viaggio. Accarezzo la vernice verde e ripenso a quando ci tenevamo la mano e parlavamo solo con gli sguardi. “Hai i suoi stessi capelli” mi disse un giorno. Non capii, ma lei aggiunse “di Ana”. Tirò fuori una foto da una delle borse che erano l'armadio dei suoi ricordi. Era a colori e in primo piano c'era una bambina che subito associai alla figlia, mentre alle spalle una donna bellissima sorrideva all'obiettivo tenendo le mani sulle spalle di Ana. “Sono io” rispose, ancor prima di domandarglielo. “Anzi ero io, una vita fa”. Il tempo l'aveva segnata, il marito aveva contribuito a renderla quella che era, ma possedeva una dignità che nessuno avrebbe mai potuto portarle via.
“Facevo la biologa presso l'Università in quel periodo. Eravamo felici, ma un mese dopo quello scatto un automobilista me la strappò con violenza. Ed ora eccomi qui”. La strinsi forte ed insieme piangemmo. Anche io ero rimasta sola per colpa di un dannato incidente, ma il destino aveva voluto che ci incontrassimo. 
Da quel momento decisi che Agatha sarebbe stata la mia seconda casa, il rifugio alle amarezze. E così fu, per qualche mese, sino a quando la nera signora non venne a recidere il fiore che stava sbocciando nel mio cuore.
Il volontario che mi aveva chiamata mi aveva dato appuntamento proprio in quel parco, su quella panchina, dove sapeva che spesso Agatha si rifugiava. Non riuscivo ancora a capire che cosa volesse. Non credevo che qualcuno si fosse interessato a lei, tranne me. Quella telefonata mi aveva stupito. Passarono circa cinque minuti e un ragazzo alto, con gli occhi scuri e una barbetta appena accennata si piazzò davanti a me con un largo sorriso luminoso. "Tu devi essere Klara! Io sono Peter." Io lo fissai senza sapere bene cosa dire, poi annuii e dissi: "Come mai hai voluto vedermi? Conoscevi Agatha?". Lui, restando composto, si sedette accanto a me e iniziò a raccontare: "Ho conosciuto Agatha qui, come te. Mi parlava spesso di te sai?" disse fissandomi, poi riprese: "Ero venuto a fare jogging e mi aveva colpito la sua aria dura, ma fragile allo stesso tempo. Così le avevo proposto di venire nella comunità dove a volte andavo a fare volontariato. Lei all'inizio aveva rifiutato, dicendo che non voleva vedere nessuno perchè era sola da troppo tempo, ma alla fine, dopo ripetuti tentativi, aveva accettato. Me l'ero vista arrivare in comunità con i suoi occhi vispi e con l'aria di una che la sa lunga e che ha affrontato le più amare sventure della vita. E così avevamo parlato, non so per quanto tempo, sulla sua vita, sulla mia vita, su di te! Mi aveva raccontato che una dolce ragazza le faceva compagnia ogni giorno quasi e le ricordava tanto sua figlia Ana. Mi aveva fatto vedere il libro che le avevi regalato e mi aveva detto di tenerlo e di dartelo quando non ci sarebbe stata più. Ecco perchè sono qui. Tieni." Mi disse Peter, porgendomi il libro. Lo presi tra le mani e lo sfogliai. Mi colpì una frase scritta a matita. Diceva: "Se non sei abbastanza per te stessa, forse puoi esserlo per qualcun altro". In un attimo capii tutto, guardai Peter e gli sorrisi. Mi sembrò quasi di vedere Agatha in lontananza.

  

martedì 25 marzo 2014

Il direttore

SCRITTO DA: GIOVANNI BERIA - MASSIMO FERRARIS - RITA MAURIZI

Sono all’apice della mia carriera lavorativa. Mi sono sempre impegnato seriamente e con gusto, devo dire, perché il lavoro che faccio mi è sempre piaciuto, fin dall’inizio. Ricordo ancora con commozione il mio primo giorno di lavoro. La sede della ditta era in un altro palazzo, molto più modesto di quello dove mi trovo adesso: gli ultimi cinque piani del grattacielo di fronte al parco, 4000 metri quadrati. Allora era un appartamento, grande, molte stanze, ma solo un appartamento in un anonimo palazzo nella periferia nord della città. Il direttore cercava un collaboratore che lo affiancasse, che lo seguisse anche nei suoi spostamenti all’estero. Io non avevo alcun problema in questo, essendo senza impegni familiari (i miei vivevano al paese e io mi ero trasferito in città per trovare appunto un lavoro) e di cuore. Ero single, e ancora non mi interessava impegnarmi in tal senso. Non era, insomma il mio desiderio prioritario. Infatti volevo fortemente emergere nell’ambito lavorativo, fare carriera e riscattarmi dalle mie modeste origini. Dicevo del mio primo giorno. Il direttore era una donna. Io non me lo aspettavo, non l’avrei mai creduto, insomma. Bene. Per farla breve, dopo nemmeno due settimane, eravamo già a letto insieme. E’ successo durante il secondo viaggio d’affari che abbiamo fatto in Germania, ad Amburgo. Lei era una donna piacente, certo, ma molto più anziana di me. Ventotto anni di più. Divorziata e anche lei molto legata al suo lavoro. Io, lo ammetto, non ero un bel ragazzo, non ero un fusto, insomma, ma molto diligente e ligio alle regole. E le regole le dettava lei, il direttore. E se mi diceva una cosa, io la eseguivo. E’ così che quella sera, eravamo in due camere separate, ho sentito bussare alla porta che le divideva. Ho aperto e mi sono trovato davanti il direttore, in sottoveste, che mi ha detto di aspettarla nel suo letto. ?
Prendevo ordini anche in questo senso: quando lei aveva voglia di fare l'amore non si poneva il problema, me lo ordinava. Ricordo i primi tempi del nostro rapporto quando un pomeriggio, durante una riunione mi disse di andare a prendere alcuni lucidi in ufficio. Non ero neanche entrato quando lei mi si buttò contro facendomi ruzzolare sul tappeto. Ci amammo selvaggiamente, con i collaboratori che aspettavano nella sala attigua. Il suo essere dominante ha segnato la mia vita lavorativa. Ero un giocattolo nelle sue mani e mi stupivo con quanta energia mi comandasse. Il direttore parlava ed io eseguivo, pretendeva e io mi prostravo. Mi maledissi per non avere un briciolo di amor proprio, che il lavoro per cui avevo speso tante energie si riducesse ad una serie di amplessi. Entro in camera sua e sento il tipico profumo che si spruzza prima di "violentarmi". Uso questo termine nella sua accezione esatta: il direttore non ammette mai che io prenda iniziative, neanche in questi momenti, ha tutto sotto controllo e mi dirige dove lei vuole che io vada. Mi siedo sul letto e mi domando cosa abbia in testa. E' rimasta in camera mia e mi ha congedato. Noto sul tavolino una bottiglia di champagne ed alcuni flute affiancati. Su un piattino ci sono degli stuzzichini e frutta a pezzi. Questa sera ha intenzione di fare un festino, ne sono certo. Mi accomodo meglio e accarezzo le lenzuola morbide e lucide.
Mi blocco quando sento la porta della camera aprirsi, e vedo lei entrare in vestaglia trasparente con al seguito un tipo muscoloso e massiccio. La mia prima reazione è quella di alzarmi ed uscire, ma lei mi fa cenno di fermarmi. -Lui è Andrea, il candidato al posto di segretario. E' qui con noi per il colloquio.- Ed io a quel punto sento le vene del cervello scoppiarmi.
Lei mi guarda con quell'aria tipica del gatto, anzi della gatta , che ha mangiato il topo e in questo caso siamo in due ad essere divorati in questa camera. Andrea è davvero un bel ragazzo , più o meno avrà la mia stessa età e non è passato prima dal lavoro e poi al letto .Lui è qui e sa già il perché . Niente di casuale , tutto stabilito da Amanda ed ora che ci penso io ero già la sua "vittima" nel momento stesso in cui ho varcato per la prima volta il suo ufficio.
Andrea si mette in libertà rimanendo in boxer rossi , io rimango seduto sul letto e la situazione non mi piace affatto, penso che i due abbiano già fatto conoscenza , intimamente intendo.
Amanda si siede sulla sedia con le gambe accavallate inizia a fare qualche domanda al prossimo nuovo acquisto
" Sei disposto a dare tutto te stesso all'azienda e lavorare per farla crescere?"
" Certo , assolutamente . Sono pronto a lavorare e dare il meglio di me"
" Ne sono convinta il tuo curriculum è perfetto per le mie nuove esigenze"
Quest'ultima frase mi lascia un po' perplesso ma non ho tempo di farmi altre domande e cercare risposte , Amanda si alza e propone di brindare alla nuova collaborazione.
Sono allibito, confuso, affranto, addolorato ed euforico. Un cocktail esplosivo di sentimenti mi turbina dentro quando vedo Andrea rivestirsi. Scampato pericolo, penso, ma sbaglio, perchè Amanda è pronta per il secondo turno, la continuazione della serata.
-Che fai ancora nel letto, vestiti- mi ordina sgarbatamente. Non capisco, pensavo fosse una notte di passione, invece lei ha fatto tutta quella scena per mettere alla prova il nuovo segretario.
-Per andare dove?- chiedo timidamente, sempre al riparo delle coperte.
-Tu vestiti e basta, e fallo in camera tua. Io finisco con Andrea. Ci vediamo tra venti minuti nella hall.-
Mi sbatte letteralmente fuori e chiude la porta a chiave. A quanto pare il colloquio con il tipo non è ancora finito. Forse c'è bisogno della prova pratica. Me lo dico ridendo amaramente e mi rendo conto di quanto sono caduto in basso.
Mi vesto e scendo, aspetto e i minuti da venti diventano trenta e poi quaranta. Finalmente si apre l'ascensore e vedo i due uscire a braccetto, sguardo affiatato di intesa e passo rilassato. Amanda mi guarda e mi lancia le chiavi dell'auto. Eccomi relegato al ruolo di chauffeur.
Infatti mi tocca guidare, mentre i due sul sedile posteriore si scambiano confidenze sussurrandosi nelle orecchie. Non riesco a vedere le mani, ma dall'espressione di Amanda quelle di Andrea non si trovano propriamente in tasca. La meta è un locale in centro dove si può bere, ballare ed assistere a spogliarelli e lap dance. Un posto da veri signori, mi dico, mentre non capisco perchè si vogliono portare dietro anche me. Ah, forse capisco, l'autista aspetta sempre in auto, e quella sera la mia carriera ha avuto davvero un bel balzo. Si, ma all'indietro!
Infatti non mi sono sbagliato Amanda si rivolge a me e mi dice
"Fatti un giro e torna a prenderci fra tre ore !"
"Merda ! "
Sussurro ma non abbastanza piano
"Qualcosa non va? "
" No Amanda , no tutto come previsto"
La vedo abbarbicarsi al suo nuovo giocattolo trionfante della sua preda.
"Imbecille ! Imbecille! Io sono una merda !"
Urlo forte .
Una rossa si avvicina , sorride ,mi stampa le sue labbra sulla guancia . Si allontana , la seguo con lo sguardo da come è vestita e da come si muove intuisco che è una delle attrazioni di quella serata . 
E' il suo lavoro ma la differenza con me è che lei si mostra a tutti ed io mi sono venduto ad una stronza.
Rimango seduto nell'auto come un fesso, fino a quando la rabbia monta e mi prendono a pulsare le tempie. Scendo e mi dirigo verso il locale dove un tipo palestrato mi blocca all'entrata. "Solo per soci", mi dice, così gioco la carta dell'autista e dico che la signora Amanda ha ricevuto una telefonata troppo importante per non essere disturbata. Prendo di tasca il mio cellulare e glielo faccio vedere. Rimane un attimo dubbioso, ma il nome di Amanda sembra fare breccia. Mi lascia passare dandomi cinque minuti di tempo. Entro e mi trovo catapultato in un'atmosfera erotica; uomini e donne mezzi nudi che si strofinano e ballano, musica assordante e liquore a fiumi. Qualcuno mi tocca, altri fanno segno di avvicinarsi, ma io non bado a loro e sondo il locale, fino a quando non li scorgo avvinghiati su un divanetto. Proprio l'occasione che aspettavo, mi avvicino e rovescio su Andrea il contenuto del bicchiere sul tavolino. Si alza di scatto, eccitato e incredulo e non appena mi vede col calice in mano mi viene contro. Non ci penso due volte: due pugni ben assestati lo mandano a tappeto. Nessuno si accorge di nulla, forse perchè scene come quelle sono normali in quel posto. Amanda si tira su e mi guarda, forse nota la scintilla di pazzia nelle pupille e decide di adottare la tecnica della gattina.
-Sei venuto a salvare il tuo amorino da questo brutto cattivone?- Mi viene da vomitare. Una donna come lei, nella sua posizione e... della sua età ridotta al livello di una prostituta! La guardo e le dico solo "fanculo!", quindi mi giro e grido ad Andrea, che si sta massaggiando uno zigomo, in modo che anche lei mi senta: -Goditela pure, fin che ti reputerà un giocattolo ancora buono da usare. Io me ne vado in cerca della mia vita, perchè so quanto valgo!- Esco e per la prima volta da mesi assaporo il profumo dell'aria, che sa di libertà.

Arrivederci amore ciao

SCRITTO DA: ALESSANDRA DE MAIO - ROBERTO LEONE - MASSIMO FERRARIS

Qualcuno una volta mi ha detto che ci vuole più coraggio a restare che ad andarsene. Io quel giorno, quando tu te ne sei andato sono rimasta ferma dov'ero, non perchè volessi sembrare coraggiosa ma solo perchè speravo tu ti voltassi e tornassi indietro.
Tu però hai continuato a camminare, la testa bassa, come se su di te pesasse, come un macigno, il mio sguardo un po' perso e un po' incosciente. 
Non so per quanto tempo sono rimasta lì, in mezzo alla gente che mi passava accanto e non si chiedeva nemmeno perchè. 
Io invece il perchè me lo chiedevo eccome. 
Qualcuno una volta mi ha anche detto che quando le relazioni finiscono è sempre un po' colpa di entrambi. 
Io però continuavo a scandagliare il fondale cupo della mia relazione, cercando definitivamente di portare a galla i resti di quelli che dovevano essere gli indizi, le colpe, le prove. E non trovavo nulla. Quando avrei dovuto cominciare a capire?
Più i giorni passavano, più tutto mi sembrava senza senso. 
Non sapere cominciava a portarmi a dubitare di tutto: non distinguevo più i momenti belli da quelli infelici, continuavo a macchiare le gioie con i dolori, e a vedere, in mezzo a tutto quel nero, solo la tua schiena allontanarsi.
Mi ritornava spesso alla mente quel giorno, quello in cui te ne andasti via da me, come se pensare alla fine potesse ricondurmi al tutto.
Ricordo che rimasi lì, secondo dopo secondo, minuto dopo minuto ad attendere il tuo ritorno. Ricordo ancora i crampi allo stomaco, come se avessi avuto i serpenti al posto delle viscere. Ricordo che faticavo a respirare, come se mi fosse mancata l'aria. La mia aria personale, l'ossigeno che era stato mio fino a qualche minuto prima: tu.
Qualcuno una volta mi ha detto che quando una relazione finisce devi avere il coraggio di guardare avanti.
Se solo il mio cervello avesse capito... Le mie gambe però capirono e mi portarono via da lì, dall'ultimo posto in cui ti ho visto. Camminai come in trance, guardando nulla e pensando a niente, neanche a dove stessi andando. Il mio corpo si muoveva come se fosse qualcuno altro a guidarlo.
Ricordo il dolore. Non era un dolore fortissimo, insopportabile, ma era continuo, come se mi fosse stata asportata con forza una parte di me e ne sentissi la mancanza.
Ricordo la notte, quando alzai le coperte fino a coprirmi il viso. Erano fredde. Ho tremato. Se ci fossi stato tu al mio fianco sarebbe stato tutto diverso. Ricordo che ho preso il cellulare e guardato lo schermo a lungo, come se potesse magicamente comparire un segno di te. Nulla.
Mi addormentai con il telefono al petto e la prima cosa che feci la mattina fu guardarlo. Ancora nessun segno di te.
Ricordo che non piansi. Forse pensavo che saresti tornato.
Piansi anche il giorno dopo a colazione, quando il caffè mi sembrò insopportabilmente amaro. Piansi di nuovo tra le coperte in un letto che da sola faticavo a riempire e che mi sembrava mi inghiottisse senza pietà.
Non capivo che era la voragine che si nascondeva sotto la mia pelle a risucchiarmi dall'interno, in un vortice che sembrava non avere mai fine, mentre i giorni si susseguivano senza curarsi di me. 
Mi dicevo che sarebbe andata meglio, che non eravamo poi destinati a stare insieme, che una relazione si costruisce in due e non ci può essere amore a senso unico, ed intanto mi leccavo le ferite senza impegno. 
Mi chiedevo che stessi facendo tu, a chi stessi parlando, o perfino sorridendo.
Il pensiero di te sorridente mi sembrava intollerabile.
Odiavo l'idea che tu potessi stare bene, o anche essere capace di fingere di stare bene, mentre io mi consumavo il viso, mentre lacrime mi bruciavano ritmicamente la pelle con la forza e la lentezza di un aratro.
"Tu non te ne andrai mai, vero?" te lo avevo perfino chiesto, una sera, tanti anni prima.
Mi avevi stretta a te, ridendo, accarezzandomi i capelli e avevi detto che no, non lo avresti mai fatto. 
Certo. 
Che stupida io a crederti. 
Che stupida a non capire. A fidarmi.
A darti in pasto il mio cuore e, alla fine, a non chiederti neppure il conto.
I giorni divennero settimane. Le settimane divennero giorni. I giorni mesi.
E di te ancora nessuna traccia.
Fino a quando non ti rividi.
Mi succedeva spesso di vedere un taglio di capelli simile al tuo e di sentire il cuore scendere sotto terra, almeno fino a quando non mi rendevo conto che non eri tu. Ma questa volta non potevano esserci errori. Camminavi a testa alta come hai sempre fatto, come a sfidare il mondo senza accorgerti di esso.
Tuttavia il mondo ti aveva notato. Io l'avevo fatto. E ti guardavo, immobile come la volta che ho visto la tua schiena allontanarsi. Non mi rendevo conto di nulla, se non il cuore che batteva nel mio petto e il tuo viso tra la folla.
Poi hai dovuto attraversare la strada. Mi vedesti.
I semafori scattarono sul verde ma noi non procedemmo, rimanemmo immobili dov'eravamo, a fissarci dai due lati opposti della strada, a studiarci. Chissà se per te è stato lo stesso, se anche tu hai pensato che non fosse trascorso un solo giorno da quando hai posato l'ultima volta gli occhi su di me.
I semafori si accesero di rosso e noi ci studiavamo ancora. E studiavamo noi stessi. Cosa avremmo fatto?
Una domanda mi assillava.
Il mio cuore l'avevi ancora tu?
I semafori divennero di nuovo verdi.
Presi coraggio ed attraversai la strada, mentre tu rimanevi bloccato al tuo posto. Questa volta ero io che mi muovevo verso di te, ti guardavo e non ero solo una schiena verso cui mandare l'ultimo saluto. Mi guardavi e non capivo cosa ti passasse per la testa; avresti potuto anche tu muovere un passo, scendere dal marciapiede e avvicinarti. Invece rimanesti fermo, lo zaino sulla spalla, quella giacca che ti avevo comprato io per il tuo compleanno. Le strisce pedonali parvero allungarsi, sino a formare un ponte. Il cuore prese a battermi forte e sentii il bisogno della certezza che tu mi avresti accolta a braccia aperte. Ma non ti muovevi, pareva non importarti dello sforzo che facevo per raggiungerti, certo, per te era stato più facile, girarti ed andartene, senza un saluto, un bacio o una carezza. 
Di colpo accusavo l'abbandono, il tuo sparire senza lasciare tracce. Non ti era importato sapere come la mia vita fosse diventata un vaso di coccio rotto dove io, giorno dopo giorno, cercavo di attaccarne un pezzo. Quante volte ho dormito col cellulare sul petto, quante volte il suo suono mi ha fatto trasalire nella speranza che fossi tu. Sono stati mesi lunghi, pieni di insonnia e pianti, ma adesso che quel vaso è ricostruito per metà non ho voglia che tu ritorni ad essere il martello che lo rompe. Ero a pochi passi da te, continuavo a guardarti, ma tu insistevi a non muovere un muscolo. Per chi si è amato come noi l'indifferenza fa più male dell'abbandono, ed io, in quel momento sentivo che non esisteva più nulla.
Ti raggiunsi, fissandoti il breve istante di un attimo e proseguii, col cuore che esplodeva nel petto. Non facesti nulla per fermarmi e te ne fui grata. Ora ho capito che posso andare avanti. Di te mi rimase solo nel naso il profumo del dopobarba che dopo un po' svanì.
Qualcuno una volta mi ha detto che ci vuole più coraggio a restare che ad andarsene. Comodo. 
Mi avevi preparata. 
Ecco quando era successo tutto. 
Quando avrei dovuto capire. 
No, non c'è niente di coraggioso nella paura di andare avanti, di cambiare, di migliorare. Tu lo sapevi, ma hai trovato la strada più facile. Io invece quella strada l'ho attraversata milioni di volte, su e giù, avanti ed indietro. 
Io quella strada l'ho percorsa tutta, da sola, perché tu hai deciso di lasciare la mia mano e non ho avuto scelta.
Ma ora una scelta ce l'ho. 
Ora so.
Mentre camminavo mi accorsi che, in lontananza, probabilmente tu ti eri voltato e la tua voce mi stava chiamando: per un delicatissimo gioco del destino e delle parti, stavamo rivivendo il giorno in cui tu te ne eri andato. 
Ma stavolta, a darti la schiena ero io e, a differenza di te, avevo il mento alto e mi sentivo per la prima volta, dopo tanto tempo, la testa leggerissima. 
Nessun rimorso. Nessuna colpa.
Non mi restava che andare avanti. 
Quindi, arrivederci, Amore, ciao.

Passato/presente

SCRITTO DA: LUCEDORIENTE - MASSIMO FERRARIS - RAFFAELE MERLONI - ELENA SOTERA 

Ciao.
Ciao.
Era percettibile quell'imbarazzo dopo tanti anni, dopo tante scelte divergenti, dopo non essersi visti per tutti quegli anni. Rachel era sempre bellissima, lo sguardo un po' da bambina di 10 anni prima la, nonostante tutte le cose passate, la vita vissuta, un marito e una bimba bellissima.
Si sedettero ad un tavolino appartato, il marmo freddo assomigliava un po' all'istante che stavano vivendo. Beh, Mr Big, come stai? Gli chiese Rachel senza indugiare. Alessio rise appena e gli occhi gli diventarono lucidi. Bene credo, nervoso. Non so perché ti ho chiesto di rivederci dopo tutti questi anni. O forse lo so e so che anche tu lo volevi.
Lei allungò la mano verso il centro del tavolo ma senza accennare a prendere la sua e lui rimase a guardare il movimento, come fosse al rallentatore, poi sollevò gli occhi verso di lei. Lei lo guardava, lo guardava sempre, ogni volta che erano stati assieme lei non gli staccava mai gli occhi di dosso e anche quella volta non faceva eccezione.
Rachel, perché hai accettato di vedermi? Perché mi hai detto di sì?
Perché tu sei tu, lo sai bene. Sei Alessio, l'Alessio che mi mandava in estasi al solo pensiero. Tu sei tu e chiunque ha sempre perso al tuo confronto. Gli occhi che mi brillano quando mi scrivi e il crampo allo stomaco quando ti penso. Sei la persona che fa da metro a tutto nella mia vita, che non riesco a cancellare, che non voglio cancellare. Sei in un posto non definito nel mio cuore, in un angolo riservato a te e non sarai mai un amico, mettitelo in testa. 
Poi si zittì un attimo, solo un istante ...ti sei lasciato sfuggire una grande occasione. Scemo.
Mi svegliai di soprassalto, con ancora negli occhi il viso di Rachel. Vicino a me Luana dormiva serena, il respiro regolare. Non era la prima volta che la sognavo da quando l'avevo incontrata per caso in centro il mese prima. Era stata lei a chiamarmi, con il solito nomignolo che mi aveva appioppata quando uscivamo insieme: Mr. Big. A cosa fosse legato non ricordo, forse per il mio essere sempre al centro dell'attenzione quando ci si trovava in compagnia. Erano anni che non lo sentivo, ma mi girai immediatamente al suono della sua voce. Fu un incontro casuale, tra vecchi amici, un caffè due chiacchiere, lo scambio del numero di cellulare e il classico "ci si vede". Nulla più.
Non avrei mai immaginato che quei cinque minuti avrebbero ossessionato le mie notti; la vedo in un parco, con il marito e la bambina più distanti vicino ai giochi. Io quei due non li ho mai visti, ma nel sogno hanno una fisionomia ben definita e mi sembra ormai che facciano parte della storia.
Mi alzo e vado a bagnarmi il viso. Lo specchio mi rimanda l'immagine di un trentenne dalle occhiaie profonde. Non ho mai avuto problemi col sonno, ma da quando ho incontrato Rachel mi sembra di non riuscire a dormire più di due ore filate.
Decido che è il momento di mettere fine a questa ossessione e l'unico modo per farlo è usare il numero che mi ha lasciato. Ma cosa le posso dire? Ho bisogno di parlarti, sei diventata la mia ossessione, scusa ma penso che sono ancora innamorato di te? Mi blocco ad osservarmi e l'ultimo pensiero vortica nella mia mente, picchiando sulle pareti della scatola cranica. Che sia potuto succedere davvero?
"Pronto?" "Sì, chi è?" "Alessio Zamperini. Con chi parlo?" "Antonello. Voleva qualcuno?" "....." "Stava cercando qualcuno?" "Vorrei parlare con la signora Rachel Biscaglia." "Non c'è adesso..." "Ah, lei è il marito?" "No, non sono il marito. Sono il padre." "Il padre?" "Che cosa c'è di strano, scusi?" "Nulla, è solo che credevo che la signora Biscaglia fosse sposata." "Ma E'sposata!" "Ah, e lei che ci fa lì?" "Perché, non posso starci? Mia figlia mi ospita per un periodo. A casa mia stanno facendo dei lavori.." "Non sa mica quando torna?" "E' andata al cinema con Marco, tra un pò dovrebbe tornare. Sta chiamando per una cosa di lavoro?" "No, non proprio. E la bambina come sta?" "Alice? Benissimo. E' appena andata a dormire. E'una brava bambina, davvero!" "Ah, e quanti anni ha?" "Ne ha sette. Ma non capisco...lei è un collega di Rachel, un amico?" "Un conoscente. Avevo bisogno di parlarci per una cosa. Anzi, non gli dica che ho chiamato. Non gli dica che Alessio ha chiamato!" "Come vuole. Del resto non sono una agenda telefonica e ho altro a cui pensare!""Bene, allora la saluto. Mi scusi per avervi chiamato a quest'ora...""Un momento, sento la chiave nella toppa! Credo che stiano rientrando..." "Davvero? Beh, non importa...""Ecco, è qui davanti a me, sono appena entrati, ora gliela passo...Racheeeel! c'è uno che ti vuole!" "Chi è?" "Non lo so..." "Pronto?" "....." Pronto??" "Si...pronto..." "Chi è?" "Sono Alessio. non so se ti ricordi di me..." "Non so se mi ricordo? Certo che mi ricordo. Che stai dicendo? E' successo qualcosa?" "No, non è successo niente, è solo che..." "Senti, sono un pò stanca, se non è urgente puoi anche parlarmene domani..." "Posso? No, è solo che...beh, ho delle cose tue che mi sono rimaste. Non so se le volevi, per caso. Mi sono sempre domandato se ti servissero.." "Quali cose?" "Vecchie cose che erano rimaste da me..."
Rachel si ritrovò in pieno centro, di fronte a quel palazzo che tante volte aveva visto prima di allora. Le faceva uno strano effetto; credeva di essersi totalmente liberata del passato e invece sentiva ancora un nodo in gola. Alessio l'aveva colta alla sprovvista quella sera, l'aveva chiamata senza alcun preavviso, insomma non era preparata psicologicamente per risentirlo. Sì, è vero, si erano già rivisti per caso qualche settimana prima, ma era diverso. Lei lo aveva già adocchiato da lontano e si era preparata quel bel sorriso finto e quell'aria disinvolta, aveva recitato la parte della donna felice e dell'amica di sempre. Mentre dentro di sé sentiva una malinconia crescente, la stessa che stava provando in quel momento, la stessa che aveva provato quella sera a telefono. Marco aveva notato questo suo cambiamento e le aveva chiesto chi l'avesse chiamata e lei aveva semplicemente risposto: "Niente di importante, era dal lavoro."
Aveva mentito a suo marito. Perché poi? Che male c'era? Doveva solo andare a riprendere alcune sue vecchie cose. Eppure sentiva l'ansia montare come un cavallo infuriato. Attraversò la strada e scorse dinanzi a sé quel grande portone di vetro, che tante volte aveva varcato. Quanto tempo era passato dall'ultima volta? Quanti ricordi? Tutte le volte che Alessio la prendeva in braccio proprio sotto quel portone, dopo le serate passate a vagare per le strade della città; tutte le volte che lo aspettava sotto a quel portone di vetro e lui usciva facendo capolino e urlando: "Mr Big è arrivato! Dove vuole che la porti, Big Princess?". Sorrise. Quel portone era stato anche il segno della fine della loro storia. Lei che usciva, lui che la inseguiva gridando. Tanti ricordi, tanti piccoli flashback, che le rendevano difficile tornare in quel posto. Ma si sarebbe fatta coraggio, affrontando le sue paure. Così avanzò verso il portone e citofonò.
Anche l'ascensore, col suo ventre piatto, le evocava dei ricordi, ma cercò di buttarli tutti in un angolo della memoria, e così il pianerottolo dove si ritrovò. Si immaginò di trovarsi davanti gli occhi verdi, leggermente scavati, di Alessio e invece la porta di aprì e davanti a lei c'era una donna bruna, magra, con una bocca sottile e occhi allungati. "Buongiorno. Come posso aiutarla?" disse. "Casa Zamperini?" "E' mio marito, sì." Le aveva detto che la moglie sarebbe stata al lavoro, non ci sarebbe stata. La presenza di quella donna mandava Rachel su di giri, le faceva tendere tutti i muscoli, le bloccava le articolazioni del collo. "Volevo parlargli" disse Rachel, e poi aggiunse, mentendo "Lavoro per il suo commercialista e vorremmo rivedere una cosa nella sua dichiarazione dei redditi." "Ah, sì" fece la donna bruna con un sorriso "In queste cose mio marito è sempre un tale distratto! Comunque entri pure. E' uscito a comprare le sigarette e dovrebbe rientrare tra poco." "Vedo che la sua casa è libera!" fece Rachel "La mia in questi giorni è occupata da mio padre, lei non immagina che tragedia!" "Non saprei. Io lavoro in una palestra, alla reception...mi chiamo Luana..." "Anna" fece Rachel, che non voleva rischiare. "a questo punto credo che, se torna, lo aspetterò qui, tanto credo sia una cosa da niente!" 
Alessio aveva una moglie piacente e lei era felicemente sposata con Marco e aveva una figlia. Non poteva che essere una cosa da niente. La donna le preparò un tè e lei si guardò intorno. Vide mille oggetti sconosciuti, fotografie di Alessio con la famiglia. A un tratto, mentre sedeva sul divano, in una piega del cuscino trovò una foto: era di lei e Alessio insieme, quando erano andati a fare una gita in montagna, ai tempi. Mister Big alpinista. Ma che ci faceva lì? Improvvisamente, mentre l'altra le porgeva la tazza, Rachel divenne tutta rossa.
"Mi sono ricordata perché ti chiamavo Mr. Big...era un riferimento alle tue dimensioni..."
"Non esagerare..."
"Certo è carino qui. E pulito. Hotel Madeleine...dovremmo ritornarci..."
"Sì, anche se rifugiarsi in un albergo, per quanto carino non è proprio quello che io considero il massimo..." 
"Ma cos'altro potremmo fare?"
"Non lo so."
"Secondo te la nostra storia ha un futuro?"
"Un passato certamente, e arriva un momento in cui le emozioni, accumulatesi lentamente tracimano, e allora non c'è niente da fare. E' come una valanga dopo che ha molto nevicato..."
"Ma possibile che non ce ne fossimo resi conto?"
"La coscienza è bravissima a raccontarsi tante bugie e poi ai tempi tu eri tutta presa con i tuoi sogni universitari e io dovevo pensare a trovarmi un posto nel mio lavoro. Ci siamo lasciati distrarre da altre cose. E' stato un errore imperdonabile."
"Tu dici che si può rimediare?"
"Non so, ma certamente ora siamo insieme.."
"Già, ma Marco, mia figlia Alice, la tua Luana?"
"Capiranno."
"Che cosa?"
"Che ci amiamo, ed è inutile opporsi. Squadra vincente non si cambia."

Qualcosa d'importante

SCRITTO DA: GIOVANNI BERIA - MASSIMO FERRARIS - RITA MAURIZI - ANONIMO

Sicuramente ho esagerato a dirle che mi sono stancato di lei. Ultimamente, però, l'ho pensato spesso. E' stato il tormento fisso dell'ultimo mese, a dire il vero. Non ricordo come sia iniziato questo disamore verso mia moglie Sara. Stiamo insieme da una vita, quasi 25 anni; abbiamo avuto Franco e Sabrina che vivono e dipendono ancora da noi, studiano tutti e due, si stanno per laureare, poi dovranno cercarsi un lavoro. Non so cosa mi sia successo, come abbia potuto perdere il controllo. Io sono una persona pacata, che pondera le parole, l'eventuale ripercussione che potrebbero avere sulla persona a cui le rivolgo. Fa parte anche del mio lavoro. Mi occupo del personale, dei suoi problemi, la sua formazione. Ascolto e do consigli. Prima, tornare a casa era come rientrare al porto dopo un giorno di tempesta. Si rideva, si scherzava, ci raccontavamo cose, io e Sara. Mi interessavo e discutevo con i figli dei loro problemi. Ultimamente, invece, ritardo, prendo tempo. Ho sempre la scusa pronta. Non ho un'altra donna; sotto questo aspetto sono fedele: non potrei tradire. Mi è nata dentro, piuttosto, una sorta di apatia verso tutto quello che mi circonda. Persino nel mio lavoro sono diventato distratto, io che sono stato sempre attento ai dettagli, che ho, si può dire, creato all'interno dell'azienda il mio incarico, con soddisfazione sia della dirigenza che dei lavoratori. Forse è stato quando ho guardato fuori dalla finestra. I nostri uffici sono affacciati sui giardini pubblici. La giornata era davvero bella, l'aria tersa, e ho creduto per un attimo di avere la capacità di toccare le fronde degli alberi solo allungando un braccio. E l'ho allungato. Era evidente che non potessi farlo: sono oltre la strada, a 20 metri; ma anche se ho riso di me, ho avuto in quel momento la certezza che stavo perdendo qualcosa di importante.?
Questa sensazione di allontanamento la sto provando anche durante il lavoro. In questi giorni ho perso l'interesse per le piccole battaglie in cui mettevo anima e cuore. Forse è il momento, o forse ho bisogno di ferie. Niente sembra essere cambiato, ma avverto che il mio mondo, quello che conosco ed è solo mio da una vita intera, sta andando alla deriva. Un pezzo alla volta si allontana dalla terraferma e prende il largo, creando in me degli scompensi che non comprendo. Ho pensato di parlarne con il dottore e non ha capito niente. Per lui sono solo fisime di un uomo di mezza età che sente che il futuro è più corto del passato. Mi ha prescritto degli antidepressivi. "Prenda lo Xanax, quando ne sente il bisogno". Ma quando posso sentire il bisogno se non so nemmeno io cosa mi succede. Non è un mal di denti, nemmeno un'influenza, è un distaccamento dalla propria vita e non c'è medicina che possa curarlo.
Sabrina si è accorta che qualcosa non va. Lei, mia figlia, mi legge dentro come un libro aperto; riesce a farlo come nessun altro. Ieri sera mi ha raggiunto nello studio, l'ho sentita arrivare alle spalle, mi ha appoggiato le mani e mi ha detto: -Non sei più tu papà...-
Non ho avuto il coraggio di voltarmi, non avrei potuto reggere il suo sguardo, le ho afferrato le mani e le ho accarezzate in silenzio, mentre le lacrime iniziavano a rigarmi il viso.
-Io ci sono, quando hai bisogno di parlare e quando ti senti solo. Ma ti prego, non andartene.-
Se ne è andata, lasciandomi solo davanti al monitor del portatile, ma con la consapevolezza di avere un'ancora a cui aggrapparmi.
Il problema è che non so cosa mi stia succedendo . Mi rendo conto che qualcosa in me è cambiato sembra che tutto ciò che mi circonda è un mondo estraneo di cui non faccio parte . E' come se avessi perduto la memoria ,non dei nomi o dei fatti reali , no, la mia mente è lucida in questo senso , è la memoria dell'anima che non sento. La mia anima è volata , è scomparsa e con lei i sentimenti non riesco a provare niente e vivo nel vuoto . Un vuoto che pesa come un macigno e fa stare male. L'emozione non c'è più per niente e per nessuno . Non ho smesso di amare la mia famiglia ma è un amore che sa di abitudine e di dovere. Tutto mi da fastidio ed è ingombrante il loro parlare durante la cena , le scaramucce che hanno sempre animato la tavola,il sorriso di mia moglie e me stesso , non sopporto nemmeno la mia ombra a volte.
Sara mi ha aspettato sveglia questa sera. In genere, quando entravo in camera lei già dormiva o fingeva. E' appoggiata alla spalliera del letto con un libro aperto tra le mani, ma credo che non abbia nemmeno iniziato a leggerlo, da come ha sollevato subito la testa o forse l'ha sempre tenuta fissa alla porta per vedermi entrare ed essere pronta ad affrontarmi. Non l'ha mai fatto ultimamente, da quando le ho detto che mi ero stancato di lei, anche se avevo subito corretto il tiro, aggiungendo "di tutto, di quello che faccio", ma credo che le prime parole siano state quelle rimaste più impresse nella mente. Non ci siamo più parlati da allora, solo semplici scambi di osservazioni relative alla quotidianità, necessità correnti. Anche le nostre figlie hanno parlato poco, addirittura fuggivano subito, non cenavano quasi più con noi. Solo Sabrina ha fatto timidi tentativi di coinvolgimento. "Non credi che dobbiamo parlare?" Ha detto Sara, chiudendo il libro e poggiandolo sul comodino. "Certo." Ho risposto. Ho preso la sedia e mi sono seduto di fianco a lei. Erano mesi che non guardavo mia moglie in quel modo, con intenzione intendo. Il suo sguardo era stanco, tuttavia i suoi occhi avevano una luce che non ricordavo più. Sapevo che aveva pianto, che doveva essersi sciacquata il viso, prima di mettersi a letto. Quelle lacrime sicuramente l'avevano convinta che era giunto il momento di arrivare ad un spiegazione. "Vorrei capire se conto ancora qualcosa per te, e se sì, vorrei soprattutto capire come posso aiutarti. Se vuoi ancora che ti aiuti, ovviamente. In passato è successo, no? Abbiamo risolto molti problemi, all'inizio." Confesso che queste sue parole mi hanno spiazzato. Avevo intuito che saremmo arrivati a questo, a parlarci, testa a testa. Sì. In passato ce n'erano state di queste riunioni in camera da letto, credo che siano comuni nella vita di coppia.?
E' che allora quelle riunioni sapevano di problemi precisi , di diversità di opinioni, di decisioni da prendere adesso io non so da dove cominciare. Sara capisce che ho lo sguardo perso , s'infila dentro la sua forza d'animo , mi si avvicina 
" Io sono convinta che non si tratti di un'altra donna ed è quello che ho cercato di far capire alle nostre figlie . Loro temono che tu vada via per una sbandata"
Mi conosce fin troppo bene sa che il tradimento non fa parte di me e che le voglio bene come la prima volta . Penso al dolore che ho provocato a tutti e questo mi fa sentire un po' stronzo . Sono contento di provare senso di colpa, infondo vuol dire che non sono diventato un robot senza cuore.
Ma non basta per dire che tutto è passato. 
"Sono spento Sara . Capisci cosa intendo? "
"Si, credo di si ,ma non sei fulminato ,possiamo provare a riaccendere la tua luce insieme o puoi provarci da solo se pensi che sia questa la strada migliore"
"E allora aiutami, Sara" le ho detto, prendendo le sue mani tra le mie.
Mi ha sorriso. Un sorriso tenero e affettuoso in contrasto con l'ombra di dubbio che velava i suoi occhi.
"Ci provo, ma tu mi devi dare la possibilità di aiutarti" mi ha risposto dopo un po' "Puoi prenderti due settimane di ferie al lavoro?"
Le ho fatto cenno di sì. Ci stavo già pensando, in realtà.
"Adesso dormiamo" le ho detto.
Lei ha spento la luce e mi ha augurato la buonanotte. Nessuno di noi due ha preso sonno subito. Nessuno di noi due ha più parlato.
La mattina dopo sono andato via presto. Sara era ancora a letto. Fingeva di dormire.

Due giorni dopo, Sara mi ha chiesto di mettermi in ferie dal venerdì successivo. Non mi ha chiesto se potevo prendere le due settimane libere dal lavoro, mi ha detto di mettermi in ferie e basta. "Se questo è il modo di aiutarmi, sta partendo male" ho pensato. Mi ha dato sui nervi.
"Fidati" mi ha detto lei, come se mi avesse letto nel pensiero.

Il venerdì, quando sono rientrato dal lavoro, Sara mi ha accolto con un sorriso e una busta tra le mani. Le ho detto che avevo preso le due settimane di ferie, ero libero.
"Allora, presto, preparati. Partiamo tra due ore. La primavera a Parigi è splendida".

Il ritorno

SCRITTO DA: LORETTA ZOPPI - MASSIMO FERRARIS - RITA MAURIZI

Chiusi il giornale rapito dalla vista del mare e del porticciolo più avanti: non notavo cambiamenti importanti, anzi stranamente tutto sembrava essere esattamente come allora.
Mi alzai e spinto dal vento di bora mi avviai verso la piccola darsena. Seguendo la scia di alghe e conchiglie sputate da mille mareggiate, raggiunsi le grotte dei pescatori scavate nella roccia .
Ricordavo. Ricordavo ogni gesto , ogni parola, ne riconoscevo il timbro alterato dal sigaro, risentivo l’odore acre dell’esca e della salsedine sapevo, ne ero certo, ogni minuscolo grano.
Sentivo ancora bene l’urlo proprio del vento quando si spinge oltre le assi di legno bianche .
« Così si tiene la rete, ma dove minchia tieni ‘a forza, ‘na fimmina sii , capisti? » Il vecchio Antonio ignorava che la ragione vera che mi spingeva alla sua grotta era un’altra. Si stava facendo buio, e per cercare se ancora vi fosse una traccia di quella ragione, accesi la torcia del cellulare . Nella parete in fondo , vicino alle mensole con gli attrezzi e le reti ammassate c’era ancora il mobile basso con due sportelli tenuti chiusi da una asta di legno, là dentro ci lasciavamo i messaggi . Lo aprii , dandomi dello stupido, ma piegato da un fermaglio che ben conoscevo, stava un foglio ingiallito con su scritto : “cercami , anche fosse tra cento anni”
Stessa spiaggia, un anno prima. I turisti affollavano il lembo di spiaggia che racchiudeva il mare più cristallino di tutti i paraggi. Era una pena vedere come per poche ore la gente si sobbarcava chilometri di auto sotto il sole e si accontentava di ammassarsi come sardine in scatola pur di mettere i piedi a bagno. Li osservavo dal terrazzo della mia casa, seduto sotto la tenda improvvisata che mia madre ogni anno montava, nonostante i rimproveri di mio padre e di nonno Nicola. La domenica, l'unico giorno di riposo, è per un pescatore il giorno di festa, l'unico in cui puoi goderti il riposo di una settimana di duro lavoro. Stavo li da un po', dopo aver pranzato ed osservavo le ragazze passeggiare sul bagnasciuga. Da quella distanza la prima cosa che mi colpì fu il costume verde, di una tonalità mai vista prima, indossato su una pelle bianca come il latte che spiccava sullo sfondo del mare. Camminava avanti e indietro, da sola, col viso rivolto verso l'alto. Corsi in camera a prendere i binocoli che nonno Nicola aveva avuto in regalo da un cliente qualche anno prima. "La ricompensa per avergli fatto vedere il mare più bello del mondo" diceva orgoglioso ogni volta che li prendeva in mano. 
Puntai le lenti sulla figura in verde e misi a fuoco. Chi dice che il colpo di fulmine non esiste è perchè non l'ha mai provato; io posso assicurare che quando i miei occhi incontrarono quella ragazza qualcosa in me si sciolse e la voglia di conoscerla divenne impellente come il bisogno di respirare. Lanciai i binocoli a mia madre, afferrai l'asciugamano e corsi verso la spiaggia, più veloce che potei, per non rischiare di perdere l'attimo. Poi la vidi, e la raggiunsi. 
-Ciao, sono Leo- le dissi, il cuore in gola per l'emozione.
Già perché mi batteva a mille e si perdeva nel verde dei suoi occhi mentre attendevo quasi tremante il suo: "Ciao, sono Valeria" poi riprese a scrutare il cielo riparandosi dal sole con la mano.
" Mi sto perdendo qualcosa ? "Chiesi divertito scrutando a mia volta l'orizzonte. " Non ancora" fece col viso in aria " ma a quest'ora passa sempre, eccola! lo vedi quel punto lontano , è un'aquila fa un giro largo e poi scompare dietro il promontorio. Ah! quanto pagherei per un binocolo!" Continuammo a parlare seduti davanti al mare finché sua cugina , una ragazza del posto che conoscevo di vista, non la raggiunse per condurla alla capannina : un piccolo stabilimento lì vicino. " Allora ciao Valeria, domani lo porto." " Che cosa ? " chiese lei sorridendo divertita." Il binocolo " " Va bene , allora ....Leo, a domani! Ma scusa, stasera cosa fai, perché non vieni anche tu alla scaletta vicino al molo, arrostiamo pannocchie e poi facciamo un tuffo!" E si allontanò , con i riflessi fulvi sui capelli e un passo morbido e aggraziato. Mi aveva invitato ed ero al settimo cielo ! Mi sembrarono leggiadre allora le conche e immensi gli odori, respiravo già gli abbracci nei vicoli stretti del borgo , più in alto e intuivo già le tenere carezze verdi di lecci con tutti i progetti a raccolta camminando insieme per ore.Torna ora alla memoria l'effetto di ogni sua parola, la sua bellezza e l'insindacabile sorriso nella solitudine odorosa di salsedine.
Ricordo l'ansia con cui guardavo l'orologio , sembrava che le lancette non volessero scorrere, il mio pensiero era rivederla , era stare insieme a lei . Me ne stavo seduto sul bordo della finestra guardavo le onde e ogni movimento sembrava ricalcare quello del mio stomaco che andava giù poi risaliva . Non avevo mai provato quella sensazione ed era bellissima . Ero un fremito decisi di andare al molo , mancavano delle ore ancora al nostro "appuntamento " ma non resistevo , non ce la facevo più a stare a casa. Quando arrivai non c'era nessuno mi sdraiai sulla sabbia calda con le braccia dietro la testa , chiusi gli occhi fissando il viso di Valeria che occupava tutta la mia mente. Ad un tratto sentii labbra soffici e al sapore di fragola sfiorare le mie 
"Ciao Leo , vado un attimo ad aiutare mia cugina con le pannocchie, non scappare!"
Si allontanò sorridendo ed io restai imbambolato da quel bacio che finì per sconvolgermi più di quanto non lo fossi già. Il vociare della truppa mi fece capire che era arrivato il momento della baldoria, svegliandomi dal torpore da cui mi ero lasciato beatificare.
Valeria non c'era , aspettai , le andai incontro . Valeria non venne.
Mi sentivo impotente ed arrabbiato. Avevo girato tutti gli stabilimenti balneari nella ricerca di Valeria, ma nessuno sembrava averla vista. Perchè quel bacio e poi scappare, mi domandavo senza riuscire a triovare una risposta. E se le fosse accaduto qualcosa? Iniziai ad agitarmi e misi le mani in tasca in cerca del cellulare per chiamare l'ospedale. La mia mano destra afferrò un biglietto piegato che non ricordavo di aver mai messo li. Il primo gesto fu quello di buttarlo, ma fortunatamente non lo feci: era un messaggio di Valeria. “Ciao, immagino tu abbia girato tutta la spiaggia per cercarmi. Io sono fatta così, prendere o lasciare. Se mi vuoi devi conquistarmi. Quel piccolo bacio è per farti capire che mi piaci. Sono la tua caccia al tesoro!”. Solo quelle frasi, ma che misero dentro nuova energia. Corsi alla ricerca della cugina che pareva mi aspettasse da un po'. -Finalmente, quando ti ho visto andare via non pensavo saresti ritornato. Prendi questo- e mi allungò un altro foglietto. “Appuntamento al faro, entrata posteriore. Mi misi a correre, sino a quando i polmoni mi dissero di smettere. Trovai un altro biglietto: “Se sei qui vuol dire che ancora non ti ho perso. Torna dove l'amore è sbocciato.” Che significava? Forse dove lei mi aveva sfiorato con il bacio? Andai la, ma di Valeria nessuna traccia, nessun biglietto. Delusione e frustrazione mi imposero di andare a casa, il mattino dopo la barca mi aspettava. Dopo una notte insonne raggiunsi la spiaggia. Ripensai al giorno prima e alle inutili corse. “Torna dove l'amore è sbocciato”, quella frase mi frullava in testa. Allora capii: mollai le reti e iniziai a correre, sino a quando non trovai un biglietto nascosto sotto ad un sasso, nel punto in cui eravamo conosciuti. Era chiuso con il fermaglio per capelli che portava la mattina prima. Lo aprii con foga, e dentro lessi una semplice frase: "cercami, anche se fosse tra cent'anni."
Ma perché non lo feci. Perché ritornai a riavvolgere le reti nella grotta invece di cercarla! Perché cedetti più alla mia vanità di maschio e non alla sua scherzosa promessa quasi d'amore eterno! "cercami , anche fosse tra cento anni" Rileggo il suo messaggio ingiallito che avevo riposto nel mobiletto. Ma che cavolo avevo fatto e mi do dell'imbecille mille volte .Ricordo che annullai i morsi dell'amore annullando l'amore stesso. Lo avevo riposto per sopravvivere senza neanche l'dea di una mappa, che so...un segno semplice che negli anni poi avrei ritrovato, rispolverato a comando per una foresta senza tante radici complicate. ma ora, in questo luogo dove d'estate giovani liberi scorrazzano in procinto di cingere la vita, ricomincio a sfogliare le voci, i ricordi e le piccole esplosioni sconosciute di quella caccia. Sento che devo ritrovarla prima di sera per fissare la mia vita nei suoi occhi . " io so dov'è " Mi disse il vecchio Antonio tra i cerchi di fumo del suo sigaro." tornasti ora? me lo dissero al paese e che fu che te ne andasti ? "fui felice di rivederlo il vecchio burbero pescatore " non so spiegarti,ma so che ora voglio cercarla. Dov'è " 
" Mi dissero che pianse molto e che ...troppo facile, guardati attorno, capisti? Attorno ." e alzando le braccia uscì dalla grotta.Cominciai ad osservarla, intorno i suoi poveri oggetti , la sedia di paglia, la barca, la vela piegata e le reti, il binocolo sopra la mensola, i galleggianti in ordine , la mia canna da pesca, il binocolo sopra la mensola. Il mio binocolo . Lo afferrai e corsi verso la spiaggia , sarebbe apparsa tra breve come un minuscolo punto per volteggiare sopra il tramonto, correvo col cuore a mille . La vedo col viso rivolto al cielo in trepida attesa. 
" Con questo la vedi meglio l'aquila" le dico cingendole la vita timidamente. 
" Ciao, guardiamola insieme" e ci perdemmo felici nel suo volo austero e libero.