Generi

mercoledì 26 marzo 2014

Forse, mai abbastanza

SCRITTO DA: CIESSE - LETIZIA LEOTTA - MASSIMO FERRARIS - ELENA SOTERA

Non si può respirare sott'acqua, a meno che tu non sia un pesce dotato di branchie, o magari un sub. Io non sono un pesce, non sono un sub e non credo mi piaccia più di tanto il mare... eppure stavo nuotando nei miei problemi, nella malinconia. 
Nonostante fosse solamente una domenica di aprile, faceva molto caldo. Quello era un caldo che non si dimentica facilmente: ti rimane impregnato sulla pelle e nei capelli, come resina. Mi svegliai e fui per un attimo assalita dalla voglia di continuare a dormire, ma il mio buon senso mi buttò giù dal letto umido: erano già le undici e trenta. Mi lavai di corsa e misi indosso la felpa blu, i jeans e le sneakers, e scesi le scale come se avessi delle gambe chilometriche. La fretta si era impadronita di me e il mio passo si faceva sempre più veloce. Budapest, frenetica, viveva attorno a me mentre i bus, gli impiegati in bici e le signore indaffarate mi circondavano. Accanto alla mia fermata del bus una band suonava canzoni degli Oasis con un accento improponibile e una ragazza dai tratti irlandesi rideva senza contegno, per quelle frasi senza senso che i tre giovani si sforzavano di pronunciare correttamente. 
Dopo dieci minuti, finalmente, arrivai alla mia destinazione: il parco!?
Molte persone sono convinte il parco sia un ottimo posto per coltivare la solitudine, i pensieri e magari per fare un bel viaggio introspettivo, e credo fosse una cosa che pensavo anch'io. Però mi sbagliavo, perché non è poi così divertente essere al parco senza nessuno. 
I giardini sono posti magici, e non lo dico solo perché la cosa migliore della mia vita mi è successa proprio lì.?
Da due mesi, ogni volta che non c'era scuola, mi dirigevo lì, forse perché era l'unico posto in cui mi sentivo qualcuno o meglio, parte di qualcosa : ho conosciuto in mezzo al verde la mia migliore amica. Forse potrei sembrare di parte, ma lei era bellissima. Due grandi occhi grigi, un po' tristi ma molto profondi, una sottile bocca rossa rossa, tante piccole rughe e dei capelli color argento che le delineano il volto. Il suo nome era Agatha, 73 anni, una impetuosa vita alle spalle e ancora tanta voglia di vivere. Da parecchi anni non aveva una casa e tantomeno una famiglia con cui vivere, in alcuni momenti credo fossi io l'unica fonte del suo sorriso. Spesso le portavo vestiti, da mangiare e da bere, o anche da leggere, perché voleva nutrire il suo spirito con i libri e placare la sua fame con il cibo. Lei amava leggere tutto ciò che le portavo ma preferiva le storie horror, perché oramai anche la cosa più paurosa , in confronto alle sue esperienze, era comicità. 
Perse la figlia Ana di soli 13 anni. Suo marito le attribuì la colpa del terribile incidente e da uomo si trasformò in una bestia, iniziando ad usare contro di lei ogni tipo di violenza: verbale e fisica.
Aveva ancora i segni della sua sofferenza sul volto e sul corpo : cicatrici enormi, in grado di raccontare storie angoscianti. Però lei ebbe il coraggio di scappare da quell'uomo, nonostante non avesse dei soldi per sopravvivere. Qualsiasi cosa ,a suo avviso, sarebbe stato più dignitoso. 
Cercò lavoro in diversi posti, ma tutte le risposte furono negative. Così, a distanza di poco tempo, iniziò a vivere per strada, tra canti ed elemosina. 
Un giorno, mentre passeggiavo per strada per raggiungere le mie amiche, mi trovai ad ascoltare quella dolce signora cantare strane canzoni popolari, e credo in quel momento sia nata un'amicizia a prima vista.
Tra le nostre anime fu attrazione immediata, come accade tra due magneti, perché eravamo accomunate dallo stesso male : entrambe non ci sentivamo abbastanza.?
Purtroppo però, il lungo freddo dell'inverno appena passato aveva portato con se, l'anima calda e coraggiosa della mia amica. Che ora, se esiste, starà cantando in un coro importante in paradiso! Mi sento così sola. Forse é colpa mia, erano giorni che la cercavo per ospitarla quando ricevetti la chiamata: era un volontario. Aveva trovato il mio numero su uno dei libri che le avevo regalato. Ricordo ancora cosa le avevo detto: <se ti servisse aiuto, o per qualsiasi cosa chiamami!> e lei mi aveva sorriso annuendo. "Non mi aveva chiamata però, perché?". Poi improvvisamente quella telefonata. Calde lacrime mi appannarono la vista, rigandomi il viso. Le asciugai col dorso della mano. Dicono che non esiste la sfortuna, io però sono l'eccezione. La suora del collegio da piccola mi ripeteva:<Dio ha uno scopo per ognuno di noi, devi solo trovare il tuo!>. Già il collegio... Ero stata catapultata lì dalla vecchia zia di mia madre dopo l'incidente. <Unica sopravvissuta. È un miracolo! > ripeteva l'agente che mi aveva trovata fuori dalla macchina. Miracolo, che strana parola, indica salvezza e solitudine allo stesso tempo...
Mi siedo sulla panchina di Agatha; è qui dove ha passato maggior parte della sua vita di nomade, qui dove l'ho conosciuta e qui dove è partita per l'ultimo viaggio. Accarezzo la vernice verde e ripenso a quando ci tenevamo la mano e parlavamo solo con gli sguardi. “Hai i suoi stessi capelli” mi disse un giorno. Non capii, ma lei aggiunse “di Ana”. Tirò fuori una foto da una delle borse che erano l'armadio dei suoi ricordi. Era a colori e in primo piano c'era una bambina che subito associai alla figlia, mentre alle spalle una donna bellissima sorrideva all'obiettivo tenendo le mani sulle spalle di Ana. “Sono io” rispose, ancor prima di domandarglielo. “Anzi ero io, una vita fa”. Il tempo l'aveva segnata, il marito aveva contribuito a renderla quella che era, ma possedeva una dignità che nessuno avrebbe mai potuto portarle via.
“Facevo la biologa presso l'Università in quel periodo. Eravamo felici, ma un mese dopo quello scatto un automobilista me la strappò con violenza. Ed ora eccomi qui”. La strinsi forte ed insieme piangemmo. Anche io ero rimasta sola per colpa di un dannato incidente, ma il destino aveva voluto che ci incontrassimo. 
Da quel momento decisi che Agatha sarebbe stata la mia seconda casa, il rifugio alle amarezze. E così fu, per qualche mese, sino a quando la nera signora non venne a recidere il fiore che stava sbocciando nel mio cuore.
Il volontario che mi aveva chiamata mi aveva dato appuntamento proprio in quel parco, su quella panchina, dove sapeva che spesso Agatha si rifugiava. Non riuscivo ancora a capire che cosa volesse. Non credevo che qualcuno si fosse interessato a lei, tranne me. Quella telefonata mi aveva stupito. Passarono circa cinque minuti e un ragazzo alto, con gli occhi scuri e una barbetta appena accennata si piazzò davanti a me con un largo sorriso luminoso. "Tu devi essere Klara! Io sono Peter." Io lo fissai senza sapere bene cosa dire, poi annuii e dissi: "Come mai hai voluto vedermi? Conoscevi Agatha?". Lui, restando composto, si sedette accanto a me e iniziò a raccontare: "Ho conosciuto Agatha qui, come te. Mi parlava spesso di te sai?" disse fissandomi, poi riprese: "Ero venuto a fare jogging e mi aveva colpito la sua aria dura, ma fragile allo stesso tempo. Così le avevo proposto di venire nella comunità dove a volte andavo a fare volontariato. Lei all'inizio aveva rifiutato, dicendo che non voleva vedere nessuno perchè era sola da troppo tempo, ma alla fine, dopo ripetuti tentativi, aveva accettato. Me l'ero vista arrivare in comunità con i suoi occhi vispi e con l'aria di una che la sa lunga e che ha affrontato le più amare sventure della vita. E così avevamo parlato, non so per quanto tempo, sulla sua vita, sulla mia vita, su di te! Mi aveva raccontato che una dolce ragazza le faceva compagnia ogni giorno quasi e le ricordava tanto sua figlia Ana. Mi aveva fatto vedere il libro che le avevi regalato e mi aveva detto di tenerlo e di dartelo quando non ci sarebbe stata più. Ecco perchè sono qui. Tieni." Mi disse Peter, porgendomi il libro. Lo presi tra le mani e lo sfogliai. Mi colpì una frase scritta a matita. Diceva: "Se non sei abbastanza per te stessa, forse puoi esserlo per qualcun altro". In un attimo capii tutto, guardai Peter e gli sorrisi. Mi sembrò quasi di vedere Agatha in lontananza.

  

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