I
Per
la terza volta in una sola mattina entro nel bar e mi dirigo al
bancone. Beppe, il barista, mi guarda con lo sguardo tipico di chi
compatisce una povera bestiola maltrattata. Questo tipo ha la maledetta
abitudine di leggermi dentro, nonostante io cerchi di nascondere gli
occhi con un bel paio di Police. Non ha nemmeno bisogno di chiedermi
cosa voglio, si piega sotto il bancone, afferra un Crodino, lo stappa e
me lo versa. Faccio cenno con il dito, ma lui mi precede e mi sbatte
davanti un contenitore con divisori in cui gravitano
alcune noccioline, patatine unte e qualcosa di non ben definito.
Accetto con un sorriso, poi con posa plastica mi siedo sul seggiolino e
volto la testa verso lei, l'essere giunonico per eccellenza, miss aiuto
barista, la signora degli aperitivi, Luana.
Avete
presente Jessica Rabbit, bene, lei è in pratica così, solo con un
vestito meno appariscente. Da quindici giorni lavora nel bar, e dallo
stesso tempo io faccio la spola più volte al giorno per osservarla e
sperando che si accorga di me.
Mi
chiamo Paolo, anche se gli amici usano il soprannome Bibi, da quando
mia madre ebbe la bella pensata di gridarlo ai giardini pubblici alla
tenera età di sei anni. Da cosa sia saltato fuori proprio non lo so, e
nemmeno lei, a quanto pare. “Mi piaceva tanto chiamarti così” dice
sempre, “avresti preferito forse Tato o Pipino?”. Tra tutti i mali
diciamo che mi è andata ancora bene, quindi me lo tengo stretto a prova
di ripensamenti materni. E comunque ora non potrei sentirmi chiamare
diversamente. Ad esempio, qualche mattina fa il Capo si è affacciato dal
suo ufficio e mi ha chiamato Paolo, si sono girati tutti meno che io.
Tra
tutte le qualità di Beppe quella del tatto non è contemplata. E' un
tipo alla buona, pane al pane vino al vino, non si perde in tanti
convenevoli e va dritto al sodo.
-Te
lo dico da amico- esordisce, imitando Crozza, -lascia stare, quella è
sposata.- Beh, non è un problema, penso, sino a quando non mi dà la
mazzata finale: -Ha pure un figlio e suo marito è istruttore di
culturismo, quindi vedi te...-
Proprio ora me lo deve venire a dire? Dopo che ho dilapidato mezzo stipendio in caffè, cappuccini, brioche e aperitivi?
Incasso
il colpo da vero signore, crollando giù dal seggiolino, poso una
banconota da dieci euro ed esco con la coda tra le gambe.
Raggiungo l'ascensore che porta al mio ufficio e trovo in attesa Marzia, la centralinista. La guardo, mi guarda e sorride. Fa flap flap
con le ciglia, l'unica cosa che veramente colpisce di lei, oltre al
nuovo modello di iPad, quindi aspetta che io entri. Mi trovo a disagio
con lei; so di piacerle, e anche un sacco a quanto pare, ma mi rifiuto
anche solo per un istante di pensare di poggiare le mie mani su di lei.
Anche se nella mia situazione uno potrebbe dire che è meglio non buttare
via niente.
Il
mio problema è che tra quindici giorni compio quarant'anni e non ho mai
baciato una ragazza, neanche per sbaglio. E dietro questa
considerazione si nasconde una tragedia ben maggiore: sono pure vergine.
Non per scelta, certo. A me le donne piacciono un sacco e non perdo
occasione di osservarle, ma questo mio dilemma va ricercato in una sola
persona, cui voglio un bene dell'anima, ma che ha sconvolto la mia
esistenza: la mamma.
Alice,
questo è il suo nome, è rimasta vedova quando ancora io dovevo imparare
a camminare. Papà faceva il camionista e un colpo di sonno, dovuto alla
fretta di tornare a casa, l'ha fatto precipitare da un viadotto. Un
attimo e lui non c'era più. Ho un ricordo nitido nella mente, ed è il
gesto che compiva ogni volta che rientrando a casa mi pendeva in
braccio: strofinava il suo naso contro il mio, facendomi morire dal
ridere per il solletico. Forse, se ci fosse stato lui, le cose sarebbero
state diverse, forse la mamma avrebbe complicato di meno la mia vita,
forse...
Chi
lo sa: fatto è che la situazione si sta facendo veramente tragica ed è
impellente che io trovi qualcuna con cui fare l'amore, prima che
l'orologio scatti sugli anta.
Ma non voglio buttare via il momento con qualcuna come Marzia che, per
carità, è una brava persona, ma mi attira sessualmente come la panna col
gorgonzola. La poverina continua a fissarmi, spera che io le dica
qualcosa; non posso stare imbambolato, in fondo è una collega.
-Come va?- mi decido a chiederle.
-Sono tanto sola- e poi flap flap.
Ecco lo sapevo, qualsiasi domanda le possa fare, lei la butta sempre
sull'argomento solitudine. Qualche giorno fa stava piovendo e quando mi
sono rivolto a lei per dirle quanto facesse freddo, lei mi ha risposto:
-Freddo come il mio cuore, tanto solo...-
Finalmente
raggiungiamo il piano e la porta si apre salvandomi dall'attacco
silenzioso della ragazza. Le faccio ciao con la mano e lei per la prima
volta porta la mano alla bocca e mi manda un bacio.
Dovete
sapere che i piani della ditta per cui lavoro, che si occupa d’indagini
di mercato, import export e commercio con l'estero, sono tutti degli
open space, con una serie di tavoli cui sediamo noi dipendenti, tutti in
direzione dell'ascensore. E' una scelta del Capo, che in questo modo
cerca di intimorirci con entrate a sorpresa.
Il
gesto di Marzia è intercettato da altri cinque colleghi, che
sghignazzano malignamente. Marcello, il più odioso di tutti, ha la
pretesa di essere il mio migliore amico e confidente. Non perde
occasione per vantarsi delle sue imprese amorose, dei suoi amplessi
degni di Rocco Siffredi e di quanto le donne cadano letteralmente ai
suoi piedi. E' un propinatore di consigli sull'arte amorosa, che declama
pure alle due colleghe donne: Monica e Lea. La prima è una cinquantenne
sofferente di vene varicose, dalla stazza di quasi cento chili,
separata e due figli, ma con la speranza di trovare ancora il principe
azzurro. Lea ha venticinque anni, fisico magrissimo, senza tette, ma con
due occhi azzurri penetranti. Ha un fidanzato storico che la viene a
prendere tutte le sere all'uscita con lo scooter, a prescindere dal
tempo. Quando c'è sole casco semplice, quando piove casco e cerata nera,
che a vederli partire sembra di osservare due sacchi della spazzatura
volanti.
Marcello
ha trentacinque anni, ma a parer suo ha visto e vissuto cose che noi
umani... bla bla bla. Conosce tutti i locali più alla moda, e sembra sia
socio onorario in molti di essi. La sparata più grossa l'ha fatta
quando ha dichiarato che frequentando il Billionaire di Briatore la
Gregoraci si è invaghita di lui e lo voleva lasciare. Sì, buonasera, con
lui, che porta a casa milleduecento euro al mese.
Gli
altri due compari di scrivania sono Ugo, che come dice il nome è il
tipico travet fantozziano, quarantatré anni, moglie e un figlio di
dieci, e Lorenzo, un simpatico trentenne sempre sotto osservazione di
Lea, che a quanto pare è innamorata persa. Anche lui è single, ma a
differenza di me non per scelta forzata, ma per riprendersi tra una
storia e l'altra. L'anno scorso ha quasi corso il rischio di sposarsi, e
solo grazie all'aiuto di Marcello è riuscito a salvarsi. La tipa era
molto conosciuta nel giro che frequenta Marcello, e a quanto pare se l'è
pure passata
un paio di volte. Questa volta sono sicuro che non abbia fatto lo
sbruffone, perché ha detto a Lorenzo la posizione esatta di un
tatuaggio, con tanto di forma e contenuto.
Lo
sghignazzo si trasforma in una sonora risata che raggiunge anche
l'ufficio del Capo. Spunta, come suo solito dalla porta e ci guarda con
aria interrogativa.
-Marzia!- esclama Ugo, e basta la parola. Fa un gesto come per mandarci a quel paese e rientra sghignazzando a sua volta.
Non voglio darla vinta al gruppetto di simpaticoni
e mi dirigo verso la scrivania, dove una pila di pratiche posizionate
ad arte mi nasconde alla vista di tutti. Il calendario, sul tavolo, mi
rimanda l'immagine di un cerchietto rosso. Maledizione a me e a quando
mi è venuto in mente di evidenziare la data del compleanno. Ora tutti in
ufficio sanno che a breve compirò quarant'anni e si sono già messi in
movimento per organizzare cena, regali e scherzi.
Appoggio
il dito sul cerchio per farlo sparire alla vista ma Marcello, che tanto
per non farsi gli affari suoi, si è spostato con la sedia accanto alla
mia, mi dice sarcastico: -E' inutile, tanto da quella data ci devi
passare- poi mi rifila il solito pugnetto alla spalla che odio ancora
più di lui stesso e aggiunge: -Diventi vecchio, caro Paolo- come se lui
fosse ancora un teenager.
-Ti auguro di arrivarci anche te!- gli sibilo di rimando. Subito si porta le mani alle parti basse e lancia un fischio.
-Dio,
come sei acido! Sarà l'andropausa...- lascia la frase in sospeso e
ritorna al suo posto. Lea mi fa segno di non prendermela e si avvicina a
sua volta. Proprio non riescono a capire quando sono di troppo.
-Una chance a Marzia dovresti dargliela, però.-
Ma
che cavolo sta dicendo? Ma l'ha vista a figura intera o sul profilo
Facebook, dove la poverina si è mascherata in modo da sembrare quasi
accettabile?
-Non è il momento- le rispondo, facendo finta di riprendere a lavorare.
-E'
ancora vergine- mi sussurra, -me l'ha confidato qualche giorno fa
mentre cercavo una cosa in archivio. Mi raccomando, non dirle niente,
altrimenti mi ammazza.-
Mi
cade la penna di mano, poi la cartellina, allento il nodo della
cravatta e deglutisco diverse volte. Improvvisamente manca l'aria e la
stanza si sta facendo più piccola. Ho trovato la mia compagnia di sfiga,
quindi posso considerare di trovarmi al suo stesso piano. Poi Lea
riesce ad aggiustare tutto aggiungendo: -Ha avuto qualche ragazzo, ma
nessuno con cui sia mai andata sino in fondo. Solo qualche toccatina e
niente più. Tu potresti essere il suo maestro...-
Mi
alzo e corro verso l'ascensore; ho bisogno di sentire il vento sulla
faccia e mi prende irrefrenabile il bisogno di emettere un urlo leonino.
Pure
Marzia ha avuto le sue esperienze sessuali, certo, non sino in fondo,
ma almeno avrà baciato, limonato, fatto petting con qualcuno. Eccomi di
nuovo al primo posto nella classifica degli sfigati.
Raggiungo
l'ultimo piano, esco sul terrazzo e mi lascio cullare dal vento che
spira fresco. Quindici giorni, poco più di due settimane per mettere in
pratica il mio progetto: perdere la verginità prima che il sole sorga su
quel cerchietto rosso.
II
Non
so com’è cominciato questo mio timore verso l'altro sesso. Non è
proprio un timore, è la paura di sbagliare, di non essere all'altezza e
di rovinare tutto. Sin dalle scuole elementari sono stato in classi
miste, dove all'inizio le bambine erano solo delle inutili seccature,
sino ad arrivare alle medie dove quelle seccature sbocciavano e
mettevano in mostra bellezze ancora sconosciute. Noi maschi siamo fatti
così, ci piace credere che le femmine siano un pianeta a parte e che c'è
sempre tempo per visitarlo, fino a quando scopri che il vicino di banco
su quel pianeta ha già posato l'astronave. Quindi cerchi di correre ai
ripari, fai domande, prendi tempo, inizi a lavarti -primo segnale che le
mamme interpretano come crescita ormonale-, sbirci riviste e siti
internet, sino a quando non ti senti pronto per il gran salto. Di colpo
ti accorgi che quella cui vorresti rivolgere tutte le tue attenzioni, il
bocciolo di rosa che ti guarda arrossendo, è già avvinghiata a un
altro. Sposti la mira, ma la scelta si riduce sempre di più sino a
doversi accontentare delle Marzie presenti.
In seconda media ho iniziato veramente a sentire l'erba crescere,
come diceva mio nonno, quando vicino a me è venuta a sedersi Licia, una
bambolina con i capelli ricci rossi e una spruzzata di lentiggini sulle
guance. Era molto simpatica, brava a scuola e amava chiacchierare.
Fortuna voleva che abitasse nel palazzo di fronte al mio, così a volte
la invitavo a casa per i compiti. Passavamo ore sul divano davanti alla
TV a guardare telefilm e cartoni animati. Un giorno, mentre
trasmettevano una commedia americana, Licia mi prese la mano. Rimasi di
sasso e pensai che stesse arrivando il momento, ma non era proprio così.
-Luca
mi ha chiesto di diventare la sua ragazza- mi disse. Il tipo era quello
famoso dell'astronave, quindi uno ormai furbetto. -Tu che sei mio amico
dici che devo accettare?-
Che
cosa poteva dire un povero ragazzino di dodici anni con il cuore
infranto e accecato dalla gelosia se non un “si”... Da quel momento
ruppi le trasmissioni con Licia e con il gentil sesso per un po', fino a
quando non mi fossi reso realmente conto come ragionava una testa
femminile.
Mia mamma nel frattempo vedeva di malocchio la presenza di quella bambina in casa nostra. -Le femmine sono tutte “maledonne”!-
esclamava quando la vedeva uscire. Era sempre presente, in qualsiasi
stanza ci trovavamo e faceva finta di svolgere lavori inutili: puliva
sul pulito, lucidava i mobili sino a renderli opachi e via dicendo.
Tutto pur di non perdere di vista il suo povero bambino.
Il termine maladonna
non ho idea da dove sia venuto fuori, probabilmente è stata una sua
invenzione. Qualsiasi essere dell'altro sesso che mi si avvicinava
veniva bollato con quella parola, persino la suora che veniva a trovare
la sorella anziana che abitava sul nostro piano.
-Quella si è fatta suora per le cose brutte che ha fatto. E' il peggior tipo di maladonna
che esista, quella con il velo!- Povera suor Angelica, sempre tanto
gentile e dagli occhi talmente azzurri che una volta le ho chiesto se
dentro c'era il mare.
Anche
le medie volarono senza che le mie labbra potessero sentire il gusto di
un bacio. La pubertà e gli ormoni che giravano a mille mi accolsero
alle superiori. Il liceo scientifico “Eugenio La Torre” era famoso per
la severità dei propri insegnanti, e non solo per quello. Tra le aule
giravano certe sventole che solo dopo una settimana di permanenza in
quel luogo soffrivo di male al collo. Ragazze dai quattordici ai venti
anni, in tutti i gradi di maturazione e bellezza. Solo il trenta per
cento degli alunni iscritti era maschio e questo voleva dire almeno due
ragazze a testa. I miei compagni, provvisti di motorino, furono i primi
ad acchiappare il meglio. Si girava ancora senza casco e all'uscita
della scuola era un continuo svolazzare di capelli al vento. Io dovevo
accontentarmi della bicicletta, non perché non ci potessimo permettere
un mezzo, anche di seconda mano, ma per il fatto che la mamma era venuta
a sapere che motorino e ragazze si amalgamavano come il pane con la
Nutella, quindi o a piedi o in bici. Scelsi questa seconda possibilità e
divenni lo zimbello di tutti per un semplice motivo: il modello era da
donna, senza la canna centrale, quindi non fatta per trasportare
qualcuno seduto. La mamma pensava proprio a tutto, o forse ero io che
cominciavo a diventare troppo prevenuto nei suoi confronti.
Il
mio migliore amico del momento era Fabio, giocatore di pallacanestro
accanito, con la camera tappezzata di poster della lega americana. A
parte quella fissazione era uno con cui stavi bene insieme, studioso e
sempre disponibile a far casino. Tramite lui si unì al duo Marco, un
vicino di casa nostro coetaneo, il quale aveva una sorella gemella di
nome Anna che mi colpì sin dal primo momento che la vidi. Avevamo
quindici anni e la voglia di uscire con qualche ragazza era più che
un'esigenza. Ci trovavamo tutti i pomeriggi in centro, dove ci
raggiungeva con altre due amiche. Per chi ci vedeva senza conoscerci
poteva pensare che fossimo tre coppiette di giovani fidanzatini, anche
perché passeggiando ci tenevamo a braccetto. Amavo girare con loro e
scambiare confidenze. Lentamente Anna ed io diventammo intimi, tanto che
prendemmo a telefonarci di nascosto dai nostri. Sentivo che era la
volta buona, ne ero sicuro. La mamma passava maggior parte della
giornata fuori di casa, al lavoro, e sporadicamente veniva a
controllarmi la Pia, una vicina settantenne, amica fidata della mamma.
In fondo cominciavo a essere grandino e lo stare in casa da solo non era
un problema. Fino a quando non decisi di invitare Anna... La mia
genitrice possedeva un dono naturale per capire quando intervenire,
oppure la mia era pura e semplice sfiga. Il giorno prima avevo
organizzato tutto al telefono con Anna, le avevo prospettato un
pomeriggio all'insegna della musica, giochi e film, pregustando già il
momento in cui ci saremmo seduti sul divano o sdraiati sul letto. Era
tutto perfetto, la Pia era passata, quindi afferrai la cornetta e
chiamai la luce dei miei occhi. Le dissi di non suonare, salire le scale
in silenzio e spingere la porta che avrebbe già trovato aperta. Il
cuore mi batteva a mille mentre controllavo che tutto fosse a posto. Una
rapida spazzolata ai denti e mi misi in attesa alla finestra. Spuntò
poco dopo e nonostante fossi in alto riuscii ad assaporare il suo passo
ancheggiante. Portava una gonnellina scura sopra al ginocchio, una
camicetta chiara e le ballerine ai piedi. Stava per raggiungere il
portone quando mi accorsi che mia madre era appena scesa dall'auto e
s’infilava nel condominio. Momenti di puro panico, come quando sei al
cinema, le luci si accendono e quelli intorno ti beccano con mezzo
indice infilato nel naso. Che cosa dovevo fare? Fermarla era
impossibile, Anna non si era accorta di mia mamma e stava salendo le
scale. Mamma entrò in casa e disse che quel giorno era stata talmente
brava che il suo capo le aveva regalato mezza giornata di ferie. Ero
color cadavere, con inizio di Parkinson. Mi guardò e lanciò un grido.
Prese termometro, termocoperta, aspirina e mi obbligò a ficcarmi a
letto, mentre due colpi alla porta mi fecero definitivamente crollare a
terra. Mi chiese se aspettavo qualcuno, ed io scrollai la testa. Aprì la
porta e si trovò davanti Anna, carina più che mai e con un filo di
matita intorno agli occhi. Sembrò uscire di testa e la poverina rimase
spaventata sull'uscio di casa. Mi guardò, sperando in un mio aiuto, ma
l'unica cosa che riuscii a dire fu di tornarsene a casa, che non era il
momento, cosa che sembrò soddisfare la mamma che rinchiuse in malo modo
la porta in faccia ad Anna.
Fine della storia. La ragazza non ne volle più sapere di me e da quel momento le nostre uscite in centro cessarono di colpo.
I
sedici e diciassette anni passarono nella solita calma piatta. Ormai i
miei amici avevano le loro belle storie ed io per sopravvivere
m’inventavo fidanzate sparse per tutto il circondario. La più vicina
abitava a cento chilometri e potevo raggiungerla solo a fine settimana,
cosa che nessuno di loro bevve nemmeno per un attimo, visto che nel
weekend ero sempre e solo a casa. E così arrivai a un mese ai diciotto
anni, fermamente deciso a far pratica a tutti i costi; tra poco sarei
stato in grado di gestire la mia vita senza l'assillo di mamma, così
pensai di acquistare una bambola gonfiabile. Ma non erano i tempi
odierni, dove basta un click per avere tutto il mondo in casa, allora le
cose erano un po' più complicate. Niente internet, né sexy shop, quindi
per chi come me voleva farsi la fidanzata virtuale non gli restava che
acquistare una rivista per adulti, scorrere gli annunci economici e
farsi spedire il pacco. Ci misi quindici giorni a convincere Fabio,
l'unico che mi era rimasto veramente amico, a fare l'ordine per conto
mio. Lui diciotto anni li aveva già compiuti da un mese, quindi su
quello non c'era problema. L'intoppo più grosso riguardava l'indirizzo
di consegna, che non poteva essere né il suo né tanto meno il mio.
Fabio, che in quel periodo usciva con Anna, si proprio quella, si bevve
la storiella dell'acquisto fatto per fare uno scherzo a un cugino che si
stava per sposare e accettò. Ebbi quindi la bella pensata di far
arrivare la bambola presso l'indirizzo del signor Adelmi, un pensionato
che abitava al primo piano del mio condominio, e al quale
occasionalmente facevo dei piccoli piaceri. Lo convinsi dicendo che si
trattava di una maglia per il compleanno della mamma, che sarebbe stato
di lì a poco, e così accettò. Ero a posto, acquisto fatto, rimaneva solo
da attendere l'arrivo. Nel frattempo mi allenavo a baciare la mia
immagine riflessa allo specchio, mettendo in pratica le tecniche spiate
agli amici. Siccome lo specchio, dopo le mie performance risultava parecchio lumacato,
tenevo in camera uno straccio e un flacone di Vetril con i quali
mettevo tutto in ordine. La mamma, quando se ne accorse, fu felice del
fatto che tenevo così tanto alla mia camera, che per rendere tutto più
credibile decisi che oltre allo specchio tutte le volte dovevo pulire
anche le porte finestra. Baciare mi costava fatica.
Quando
il signor Adelmi mi avvisò dell'arrivo, non stavo più nella pelle. Si
offrì di tenerlo fino al giorno del compleanno, ma io rifiutai dicendo
che lo volevo fasciare in un foglio di carta che avevo già acquistato e
che l'avrei nascosto in camera mia. Salii i gradini tre a tre ed entrai
in casa. Della mamma non c'era traccia e l'orologio mi diceva che per un
paio d'ore sarei rimasto da solo. Feci a brandelli l'involucro sul
quale non compariva nessuna sigla e mi trovai davanti un oggetto di
plastica colorata racchiuso in una busta. Quando la distesi sul letto,
mi sembrò di aver acquistato uno di quei coccodrilli salvagente che
andavano tanto di moda in spiaggia. Si trattava di una figura femminile,
lunga circa un metro e mezzo che sembrava essere passata sotto un rullo
compressore. Sotto il piede trovai la valvola per gonfiare, proprio
come il coccodrillo. Ci misi dieci minuti buoni prima che la donnina
prendesse forma, e altri dieci per avere la bambola bella gonfia.
Rimirai il risultato soddisfatto, ma anche un po' dubbioso. Era
certamente nuda, ma da lì a passare per il prototipo in plastica di una
donna vera ce ne passava di strada. Tutta di color roseo, con capelli
neri disegnati, occhi enormi con ciglia che sembravano gli aculei del
porcospino, al posto della bocca un foro rotondo, un altro in mezzo alle
gambe e l'ultimo di dietro. La guardai, sperando di provare l'impeto
dell'eccitazione, ma più il tempo passava meno avevo voglia di usarla.
La mia prima volta non si poteva ridurre a un amplesso con la versione
umana del coccodrillo da spiaggia!
Dopo
averla sgonfiata e gettata nel primo bidone vicino a casa, tornai alla
vita di tutti i giorni, fatta di scuola, casa, pochi amici e mamma.
Passarono
i diciotto anni che mi lasciarono vergine e immacolato, nonostante
Fabio avesse organizzato una festa a sorpresa nel garage di casa sua.
Anna era riuscita a perdonarmi per quell'episodio accaduto qualche anno
prima ed io ero felice che fossimo tornati amici, anche se vederla tra
le braccia del mio migliore amico, mi faceva ancora venire le bolle
nello stomaco. Fu una serata simpatica, durante la quale facemmo il
gioco della bottiglia. Girò per un'ora intera, tra baci, abbracci,
toccate al sedere, alle tette delle ragazze, cosa che toccò in pratica a
tutti, meno che a me. L'unica volta che mi si fermò davanti chi aveva
formulato la richiesta aveva optato per la corsa senza scarpe nel
giardino di fronte al garage. Che ci volete fare: è la mia vita!
L'estate
del diploma decidemmo di organizzare una gita sulla riviera adriatica.
Rimini, Riccione, Cattolica, tutti nomi che accendevano la mia fantasia e
che associavo a belle ragazze in bikini e al sesso sfrenato e
selvaggio. La mamma si dimostrò comprensiva e accondiscendente quando si
assicurò che nessuna maladonna facesse
parte della comitiva. Saremmo partiti in quattro, con l'auto del papà
di Fabio e avremmo dormito in tenda. Ero pronto al grande ingresso nella
patria dell'amore, in compagnia di tre amici che, fortuna loro, avevano
già goduto le gioie del sesso. Mi sarei buttato nella mischia, non
avrei titubato, male che andava nessuna ragazza scontenta avrebbe fatto
la spia. La prima sera ci unimmo a un gruppo di pugliesi in riva al
mare. Avevano organizzato un falò con tanto di chitarra e cantante. Le
ragazze erano nella media, ma a quel punto non potevo fare lo
schizzinoso. Me ne bastava una che ci stesse e addio santità.
La
trovai, Lucia, niente di eccezionale, ma nemmeno da buttare via. Aveva
tutte le sue cose al punto giusto, forse doveva essere un po' più
altina, ma andava bene lo stesso. Passai la prima ora a parlare con lei,
durante la quale mi raccontò di essere appena uscita da una storia con
un compaesano. Io diedi spazio alla fantasia ed elencai le ultime tre
ragazze con cui ero stato. Forse esagerai ne descrivere certi
particolari, quali ad esempio sesso in ascensore, dietro al divano in
sala, allo zoo e pure nel camerino di prova di un supermercato. Sono
sempre stato fantasioso, che ci volete fare. Lucia rimase impressionata
dal mio racconto e mi sembrò particolarmente in ansia. Mi lasciò dicendo
che i genitori la stavano aspettando e concordammo l’appuntamento per
l'indomani. Era fatta! Solo che non avevo fatto i conti con la fantasia
sfrenata e il fatto che la ragazza avesse raccontato a tutta la
compagnia, più alcune conoscenti, delle mie imprese erotiche. La
classificazione “forbidden” mi comparve sulla fronte, e da quel momento
le ragazze mi transitarono a distanza. Comunque, per non passare per chi
con le ragazze non ha mai avuto a che fare, sessualmente intendo, posso
confessare che il mio bel contatto con una di Firenze lo ebbi proprio
durante quella vacanza. Forse era arrivata dopo, o non frequentava i
ragazzi pugliesi vicini d'ombrellone, fatto sta che un giorno, mentre
gli amici si divertivano in riva al mare a giocare a palla, io mi
addormentai con la schiena rivolta verso il sole cocente. La poverina,
forse per pena, mi svegliò quando ormai il danno era compiuto. Il retro
del mio corpo era pronto per cuocere uova fritte, e lei, di cui non
ricordo il nome, ma posso assicurarvi che era tremendamente carina, si
prodigò a spalmarmi la crema. Fu una sensazione piacevolissima e vederla
strofinare il mio corpo con tanto vigore produsse effetti indesiderati.
Fui costretto a farmi mettere un telo sulla schiena e rimasi in quella
posizione per tutta l'ora seguente, e potete immaginare perché... Quando
i miei slip da mare finirono di tirare di lei non c'era più traccia, ma
è rimasto vivo in me il ricordo di quell'intenso contatto fisico.
L'università
la scelsi più per compagnia che per vera vocazione. Tutti s’iscrivevano
a Scienze Politiche, per via del piano di studi più semplificato
rispetto ad altri, e così mi feci trascinare anch’io. Tutte le mattine
sveglia alle cinque e mezza e treno alle sei e cinquanta. Mezz'ora di
viaggio e poi facoltà. Dopo le feste estive rientrare a scuola fu un
vero trauma, anche perché tutto era completamente diverso dalle
superiori. In treno conobbi Valeria, la donna più importante della mia
vita, quella con cui avrei potuto fare il grande passo. Intendo sesso,
non matrimonio. La vidi per la prima volta durante il terzo mese di
frequenza, quando ormai l'euforia di trovarci tutti insieme sul treno al
mattino a far casino era svanita. Valeria viaggiava sempre sola, con il
naso infilato in quaderni fitti di appunti, che visti a distanza
sembravano macchie di nero. Anche lei era iscritta a Scienze Politiche e
come me si fermava tutto il giorno a studiare. Ci volle quasi un mese
prima di avere il coraggio di palarle, ma ancora oggi ringrazio il
Signore di avermi dato quel coraggio.
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