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domenica 4 maggio 2014

Stendahl-izzata

SCRITTO DA: ANONIMO - MASSIMO FERRARIS - VERONICA LIP - JOHN G. - RAFFAELE MERLONI

Mi fermo. Sento salire i brividi, le vertigini, mi gira la testa. Sono malata della sindrome di Stendhal. Sindrome. Non malattia, sindrome. Un'ossessione.Osservo il quadro della vita. Ne sono estasiata. Mi passano davanti immagini di vivi e di morti, vivi, morti, vivi, morti. Basta. Vedo, osservo. Un sorriso. Una donna in fondo alla via. Un gentiluomo in cravatta. Una sigaretta a terra, spenta. Una lacrima su una guancia destra. Un bambino sull'altalena. Capelli rossi, lunghi e mossi. Sindrome. Sono stedhal-izzata. Dentro al vortice della vita. Impazzirò. Troppe emozioni e troppe sensazioni mi danno alla testa. Sono troppo viva. Respiro. Mia cara vita sei proprio un bello scherzo. Nasciamo incantati, cresciamo distaccati. Alcuni invece rimangono fermi, dentro ad ogni frammento di sentimento. Li chiamano folli. Un dipinto. Colori. La vita.Sono estasiata. Sthendal-izzata.
Osservo la vita come dietro a una cornice. Cambia colore, forma e dimensione a seconda del panorama. Mi perdo in quelle visioni d'insieme, quando il cervello fa fatica a discernere i particolari. Un vortice di emozioni mi assale mentre afferro al volo schegge di vissuto, particolari che nascondo nella mente per usare come pezzi di un puzzle tutto mio. Un fiume ed un'arpa, un cuore e un mulino, una zebra e il secchiello del ghiaccio. Mescolo, reinvento e creo il mio quadro personale, poi mi fermo e osservo, rapita dal risultato. Mi manca il respiro quando con le dita delimito un frammento di paesaggio, in cui racchiudo il significato del tempo e dello spazio. E nuovamente mi blocco respirando e bevendo avidamente la scena. Sthendal-izzata cronica, in questa sindrome che è insieme malattia, paranoia, paura e libertà. Anche tu, che ti avvicini non capendo perchè sfugga al tuo sguardo non capisci che di te è già tutto in me. In un battito di ciglia ti osservo, valuto, fotografo e catalogo. Ti incornicio e ripongo nel museo della mia mente quel quadro su cui mi soffermerò a studiare i particolari, perchè mi accorgo che in te c'è la perfezione.
Ed eccomi qua seduta, sul bordo di un sedile lurido di un treno squallido.
Nulla di più lontano dalla bellezza, dall'arte pura e viva.
I colori sono cupi e gli odori sgradevoli.
Penso: è il posto giusto per avere un po' di pace, libera anche se per poco tempo dalla paura, ma che dico paura, dall'acceso panico e dall'angoscia lancinante, di riscoprirmi stupita, ammaliata, agitata di fronte al perfetto in modo malato, in modo soffocante, in modo...
No. Ti prego no. Non adesso, non qui, non nella mia ora di libertà.
Sento gli arti che cadono a terra, zavorre frenare i miei piedi, immobile la schiena ritta sulla spalliera del sedile. La vista si annebbia e spalanco gli occhi in cerca di luce. 
Lui è qui. Lui mi sorride e la mia fronte si imperla di sudore freddo che cola giù per le gote, finendomi sul labbro superiore insensibile al tatto. È un'opera d'arte. Lui più di tutto.
Vorrei non sentire il cuore sul collo stringermi come una sciarpa assassina. Vorrei solo essere normale, come tanti in questo mondo. Stendhal ti odio. Odio il tuo nome, odio questa sindrome, odio, odio, odio!
Sto impazzendo davvero. 
Lui non mi vede. Io non sono la sua Monna Lisa. 
C'è chi vorrebbe risvegliare la sua vita dal torpore. Io vorrei scollegare le mie emozioni dal corpo, non colorarmi di porpora mostrandomi troppo in anticipo per quello che sono. 
Chi amerà mai una come me? Io sono una malata di vita. Posso solo impazzire. Sprofondare nella folle inconsapevolezza dell'essere e definirmi dipinta muta, imprigionata in una cornice.
Ve l'ho detto, sta arrivando.
- Biglietto, prego.- dice. Baffi e barba di Van Gogh, rossi ispidi, pennellate furiose su una pelle logora e stanca. "Al restauro!" griderebbe qualcuno. Giacca e pantaloni neri, due grossi colpi di quelle setole morbide dei pennelli, sì. Potrebbero bastare a inumidire la tela di quell'uomo, alto e slanciato. Il volto è la parte più difficile; la vista, ancora sul punto di perdere i sensi assieme a me, cerca di delineare i particolari. "Non fare i volti tutti identici, figlia mia. Devi donar loro un'identità!". E' quello che sto facendo. Intingo i miei pennelli nelle chiazze colanti sulla tavolozza e 
"IDENTITA'!"
è quello che sto facendo, santo Dio.
- Non mi sente? Vorrei vedere il suo biglietto.-
Biglietto, certo. Anche questo mi pare una pergamena minuta, una pelle femminile solcata da schizzi ad acquerello alla da Vinci. Sono indecisa se cedergli anche solo per un attimo quell'immensa opera d'arte. L'uomo Van Gogh me lo strappa di mano e qualche goccia di tempera rosa bruciato della sua pelle mi cade sui jeans. Li strofino ma la macchia non viene via.
- Tenga.- mi dice. Le sue parole erano racchiuse in una grossa nuvoletta, o sbaglio? Se ne va ancheggiando, molle come gli orologi di Dalì.
Ecco, ha rovinato il mio biglietto sfregiandolo con un piccolo foro. Maledetto. Assassino.
Si legge ancora il nome della destinazione: Roma Termini.
E' un circolo vizioso: incomincio e non smetto più, come un criceto dentro una gabbia, che gira e rigira su una ruota: la sua passione, la sua condanna. 
Questa sera? ho cominciato con il ragazzo sul treno. Il ragazzo che incontrai la prima volta di fronte al portone di un edificio a tre piani, dove seguivo un corso di pittura. Sono passati quattro anni e ricordo i suoi sorrisi di circostanza, la sua indifferenza di fronte ai miei occhi, ammaliati nel guardare quella scultura dall'immensa bellezza mentre prendeva vita. Lo incontrai per otto settimane. Uscivo di casa, dalla mia vecchia casa, appena dietro l'angolo di Via Bezzecca, nell'incrocio con via Palestro , Roma. Ma che importa dove abitassi e in quale portone color ciliegio dallo stile barocco uscissi? Quell'uomo dal viso inscurito dalla barba, mi faceva cortesemente passare avanti e io ne ero attratta, come un polo positivo dal negativo. Ma per lui io non ero nessun polo. Ero solo una ragazza dai capelli castani, che si fermava al secondo piano di fronte a un portone stinto e scheggiato. Io di lui conoscevo, invece, i particolari che una donna può sapere di un viso di un misterioso, attraente, sconvolgente sconosciuto impresso nella propria mente. Lo dipingevo sulle tele ruvide e bianche desiderose di colore. Oh si, lui era la mia opera d'arte allora e questa sera sul treno, lo è stato nuovamente. 
Scendo alla stazione per tornare a casa, quella nuova in Via Monterosi, ma un solo pensiero mi occupa la mente, tanto da sentirmi il cervello scardinarsi dalla scatola cranica e un senso di nausea pervadere le mie fauci asciutte. Dovevo trovarlo tra la folla e seguirlo. Dovevo osservarlo ancora, rubarlo, estirparlo dal museo dell'esistenza. Doveva essere mio. Finalmente incorniciati nel quadro della vita. Oddio non ci credo, sono una ladra. E' follia.
Che senso ha andare ad abitare a via Monterosi dopo che si è abitato in via Palestro? C'è il senso di casette carine immerse nel verde, lontano dal caos della città e dai troppi stimoli che essa propone. Una anestesia volontaria. Il campanello suona all'improvviso. Sono in vestaglia. Sto ricamando come una dama di Vermeer, un momento di contemplazione. Apro la porta ed è lui. Mi era parso di vederlo, è proprio lui, una specie di Velasquez più basso, coi capelli corti. 
"Ciao, vorrei chiederti un grosso piacere..."
Mi immagino mentre costui scala l'Empire State Building con me tra le braccia, disturbato dai fari che gli sparano addosso coni di luce azzurrina. 
"Che piacere?"
"Sono un pittore, a tempo perso. Che ne diresti di posare per me?" Posare o riposare?
"Che tipo di quadro?"
"Una specie di Maya desnuda.."
"Un nudo? Io? Ma nemmeno ci conosciamo..."
"Posso garantire che sarà un capolavoro."
Accecata dalla luce, dovrei dirgli quanto sono confusa, quante legioni marciano contemporaneamente nel mio povero cervello. "Ma tu da dove sbuchi? Non ti ho mai visto da queste parti. Come mai disturbi una tizia che abita in via Monterosi?" "Ti ho vista quando eri, piena di fuoco, a via Palestro, perdonami, non ho potuto dimenticarti..." 
"Allora è tutt'un altro paio di maniche, entra pure, mio caro Utrillo dell'anima mia. Farò il tuo quadro e poi parleremo un pò di Stendhal.."

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